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    NEWS

    Accolti al Tempio Spagnolo il ministro degli Esteri israeliano Katz e le famiglie di otto ostaggi a Gaza

    Il Tempio Spagnolo ha ospitato un evento che, per il suo peso specifico, per il momento nel quale è avvenuto e per le motivazioni a causa delle quali è stato possibile, sarà probabilmente ricordato come uno dei punti storicamente più significativi nel rapporto tra il mondo ebraico nazionale e lo Stato d’Israele. Nel giorno del compimento di sei mesi dal 7 ottobre, data del brutale attacco di Hamas e dell’inizio del conseguente conflitto, il ministro degli Affari Esteri israeliano Israel Katz e le famiglie di otto ostaggi al momento nelle mani del movimento terroristico a Gaza sono stati accolti in un incontro privato da un gruppo di rappresentanti della Comunità Ebraica di Roma e dell’ebraismo italiano. La visita non è casuale: Katz è arrivato nella Capitale per incontrare il suo omologo Antonio Tajani, il ministro della Difesa Guido Crosetto e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
    “La nostra delegazione ha una missione: mettere pressione per portare i nostri rapiti a casa, convincere i leader che hanno influenza su tutto il mondo a darci una mano – ha sottolineato Katz nel suo discorso istituzionale – Dobbiamo riportare sicurezza a Sud di Israele, a tutti i civili israeliani. Oggi abbiamo incontrato il Ministro Tajani, che ci sta a fianco. Il mio ruolo è far capire che non esiste un cessate il fuoco senza il ritorno degli ostaggi a casa, sono due cose legate. Non molleremo, continueremo a fare tutto ciò che possiamo”.
    Ad aprire gli interventi del tavolo moderato dall’Assessore ai Rapporti Internazionali della Comunità romana Johanna Arbib è stato il Rabbino Capo di Roma Rav Riccardo Di Segni, il quale ha ricordato come il 7 ottobre non sia un capitolo isolato nella storia, ma “una storia che continua”, un’aggressione che il popolo ebraico ben conosce così come la Keillà capitolina, che ha subito così come Israele il terrorismo palestinese proprio nello stesso giorno di Sheminì Atzeret, il 9 ottobre 1982, quando nel noto attentato al Tempio Maggiore morì Stefano Gaj Taché, un bambino di soli due anni.
    “Noi in questa Comunità ci siamo sempre stretti e continueremo ad essere stretti con Eretz Israel (la Terra d’Israele), Medinat Israel (lo Stato d’Israele) e con il popolo di Eretz Israel, che combatte per la sua vita e per la sua libertà. Il messaggio che vogliamo trasmettere è che siamo tutti parte dello stesso corpo e che la vostra sofferenza è la nostra sofferenza, le vostre speranze sono le nostre”.
    Successivamente, il presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, che ha rinnovato il legame nel dolore con lo Stato ebraico ribadendo l’impegno istituzionale e non solo dell’entità che rappresenta nel continuare a lavorare per sollecitare sulla necessità di liberare gli ostaggi: “La tavola è apparecchiata da sei mesi per accogliere i vostri cari nel giorno in cui torneranno. I giovani hanno affisso uno striscione sul Palazzo della Cultura, con i nomi e i volti di tutti loro. Voglio essere chiaro: non può esserci pace finché uno solo non sarà restituito alla famiglia. Fino ad allora noi ebrei romani continueremo a denunciare questo orrore, ad incalzare la pubblica opinione e le istituzioni, che ringraziamo, perché ci stanno dimostrando la loro vicinanza e solidarietà”.


    In ultimo, prima dell’intervento di Katz, la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) Noemi Di Segni, che ha assicurato il sostegno delle istituzioni ebraiche italiane nell’impegno dello Stato d’Israele a salvaguardare i suoi territori e la sua popolazione.
    “Le Comunità ebraiche senza se e senza ma comprendono e ribadiscono in ogni sede l’esigenza di dover recuperare e garantire la sicurezza di Israele, dei suoi confini e suoi cittadini. Proseguiremo senza esitazione alcuna, insistendo quotidianamente sulle ragioni di Israele e sul servizio che sempre daremo alla cultura della vita come risposta alla cultura della morte”.
    Dall’arrivo della delegazione fino all’HaTikwa, l’inno dello Stato d’Israele, con il quale è stato concluso l’incontro, l’atmosfera è stata carica di emozioni. Ognuno dei presenti sembrava avere contezza dell’unicità e della portata storica dell’evento a cui era stato chiamato ad assistere, ma anche dell’apporto che avrebbe potuto dare. Silenzio assoluto intervallato da sentiti applausi nei discorsi istituzionali, commozione ed empatia di fronte alle testimonianze dei famigliari di Tamir Nimrodi, Agam Berger, Omri Miran, Guy Gilboa-Dalal, Yarden, Shiri, Ariel e Kfir Bibas, la maggior parte giovani, gli ultimi due di quattro e un anno. La Comunità ha abbracciato tutti loro, ma non solo in senso figurato. A margine dell’evento ciascuno degli ospiti israeliani, padri, madri, fratelli, parenti vicini, ha ricevuto il calore di un popolo intero. Lo si vedeva negli sguardi, lo si avvertiva dagli abbracci e dalle parole. Un unico popolo, un unico cuore. Il loro dolore era davvero il dolore di un’intera Comunità, distante chilometri, ma profondamente in simbiosi con lo Stato d’Israele.

    Credits foto Luca Sonnino

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