L’agitazione contro Israele è dilagata in tutte le università occidentali, spesso con aspetti chiaramente antisemiti: negli Stati Uniti, dove il movimento è iniziato coinvolgendo anche università di élite, in Gran Bretagna, Francia e anche in Italia. Spesso i manifestanti si rivelano in parte provenienti dall’esterno delle università, per lo più da ambienti di immigrati dai paesi arabi e musulmani e in generale i manifestanti sono sempre piccole minoranze rispetto ai numeri complessivi della popolazione universitaria. Ma queste caratteristiche sono comuni alle ondate ricorrenti di protesta che hanno agitato le università almeno dal Sessantotto: si è sempre trattato di gruppetti ideologizzati che pretendevano di rappresentare l’intero mondo studentesco e però in parte riuscivano a influenzarlo davvero, anche perché la loro prima cura è sempre stata (ed è ancora in queste settimane) l’eliminazione di ogni voce dissenziente, l’espulsione anche fisica di chi poteva portare opinioni diverse dalle loro.
Al di là dei singoli episodi, è un’ondata che offende e preoccupa gli ebrei di tutto il mondo, non solo perché per le università passano le future classi dirigenti e perché alcuni rituali di questi episodi sembrano tratti dal copione degli anni Trenta in Germania, ma anche per la tranquilla sicurezza, per il senso di compiere azioni giuste e doverose che traspare dagli atteggiamenti dei manifestanti. Coloro che dentro il movimento dicono di essere motivati dai diritti umani, non hanno fatto una piega davanti al più grande omicidio di massa degli ultimi decenni compiuto il 7 ottobre dai terroristi su inermi israeliani, in gran numero ragazzi delle loro età riuniti per un concerto di musica come quelli che anche loro frequentano; le femministe, anche quelle che fin nel loro nome dicono di non voler escludere nessuna donna dalla loro tutela, non si sono emozionate per l’atroce stupro di massa compiuto in quel giorno; chi sostiene di essere pacifista e di volere a ogni costo la tregua non ha protestato per la rottura premeditata e organizzata freddamente da Hamas della tregua che vigeva fino allora. Alcune ricerche sociologiche mostrano anzi che negli studenti di sinistra il pregiudizio anti-israeliano e antisemita si è impennato alla notizia del pogrom, ben prima della reazione di autodifesa di Israele. Del resto queste proteste sono del tutto indifferenti ai fatti; non hanno affatto badato all’offensiva missilistica iraniana su Israele se non eventualmente per accoglierla con gioia; sono cresciute proprio quando, a causa del condizionamento di Biden, l’azione bellica israeliana è fortemente rallentata.
Tutto questo mostra l’inconsistenza non solo politica ma anche morale della protesta, il suo carattere ideologico e settario, la sua indifferenza ai valori e ai fatti, la sua aderenza a stereotipi neanche ben compresi (ricerche sociologiche mostrano che almeno il 60 per cento degli studenti che ripetono lo slogan antisemita “dal fiume al mare, la Palestina sarà araba” non sanno di che fiume e di che mare si tratta). In realtà nelle manifestazioni vi è alla guida una minoranza cinica e filoterrorista, spesso esterna, seguita da una maggioranza di persone disorientate, alla ricerca di una causa. Ma costoro lo fanno con l’aria virtuosa di chi persegue il bene e vuol distruggere il male. Questo è il problema. Perché di nuovo, come nel Medioevo e nel nazismo, gli ebrei sono combattuti istintivamente come rappresentanti del male. Questo fondo antisemita è ciò contro cui bisogna battersi oggi, non solo in Israele ma anche in Europa e negli Usa.