
La distruzione di Fordow
La svolta della guerra con l’Iran, attesa da una settimana, è arrivata: gli Stati Uniti sono entrati nel conflitto, attaccando con le loro superbombe penetranti il sito più importante del programma nucleare iraniano, Fordow, annidato in profondità sotto una montagna e al di là della portata dei bombardamenti israeliani. In aggiunta salve di missili sparati dai sommergibili americani hanno colpito altri siti del programma di armamento atomico degli ayatollah. Gli aerei americani sono rientrati senza danni alle loro basi, perché la capacità antiaerea dell’Iran è stata distrutta dagli attacchi israeliani, prima nell’attacco di rappresaglia dell’ottobre scorso e poi durante i dieci giorni dell’operazione in corso. La reazione iraniana è stata rabbiosa, ma sostanzialmente inutile. Vi sono stati nuovi bombardamenti missilistici su edifici civili israeliani, addirittura su una casa di riposo per anziani. I danni materiali sono consistenti, vi sono stati numerosi feriti (anche se nel momento in cui questo articolo viene scritto non risultano vittime), ma l’impatto sulla capacità militare di Israele è nullo e anche sul piano morale la tattica terrorista iraniana ha avuto l’effetto di unire il paese, mettendo di lato ogni opposizione, e non certo di intimorirlo o dividerlo.
Un’azione coordinata fra Usa e Israele
Ci sarà tempo per verificare la portata effettiva dei danni nei singoli impianti e per completare la loro neutralizzazione, come già gli aerei israeliani stanno facendo; ma è chiaro che del grande progetto iniziato da Khomeini quarant’anni fa di fare dell’Iran una potenza nucleare egemone in Medio Oriente capace di distruggere lo Stato ebraico, non restano più che le macerie. L’alleanza fra Israele e gli Stati Uniti ha funzionato benissimo anche sul piano della disinformazione. Come Trump aveva mascherato l’attacco israeliano dieci giorni fa con le sue proposte di trattativa, così lo ha fatto per il suo intervento con il suo lungo ultimatum di due settimane per l’inizio di un negoziato. È probabile che tutta la campagna fosse stata pianificata nei mesi scorsi, magari quando i giornali e i politici europei annunciavano con gioia “tensioni” e addirittura “rottura” fra Netanyahu e Trump.
Le conseguenze immediate e i rischi
Vi sono ora dei problemi immediati e altri di prospettiva. Nelle prossime ore dovranno arrivare le reazioni della Russia e della Cina, che hanno scommesso molto sul regime degli ayatollah. Per la Russia l’Iran era diventato un “partner strategico”, il primo fornitore di droni per la guerra all’Ucraina e anche il miglior cliente di armi antiaeree (quelle che non hanno potuto in nessun modo ostacolare gli attacchi israeliani). La distruzione del potenziale militare dell’Iran è una grave sconfitta materiale e di immagine per Putin, che però già nei giorni scorsi aveva voluto spiegare le cause del suo non intervento, dicendo fra l’altro che Israele è pieno di emigrati russi, “quasi un paese russofono”, che quindi implicitamente godeva di una qualche protezione da parte sua. Al di là di questa considerazione, che era già stata messa in evidenza qualche anno fa, ai tempi del conflitto in Siria, è evidente che la Russia non ha la forza né economica né politica né militare di battersi in Medio Oriente, mentre da anni non è in grado di risolvere la guerra che ha portato all’Ucraina. La Cina invece prende dall’Iran una parte consistente del petrolio di cui ha bisogno e ne ha fatto una tappa importante della sua “Via della Seta”. Ma ha una politica flessibile e pragmatica, è improbabile che scelga di impegnarsi in questo conflitto dalla parte dei perdenti, al di là dei rifornimenti militari già concessi e ripetutamente recapitati.
Un contrattacco iraniano?
L’ultimo tema imminente è quello di un possibile attacco iraniano agli interessi americani, sia colpendo direttamente le basi in Medio Oriente, sia dando agli Houti yemeniti il compito di bloccare l’ingresso del Mar Rosso, danneggiando il commercio internazionale. È probabile che gli Houti tentino l’assalto a qualche nave civile nell’Oceano Indiano; più difficile è pensare che l’Iran osi colpire i soldati americani che si trovano in Qatar o in Arabia Saudita. Prima di colpire, Trump ha predisposto un’enorme schieramento militare tutt’intorno all’Iran: tre gruppi navali con le più potenti portaerei del mondo e molte decine di navi lanciamissili circondano il Paese da tutti i lati, i bombardieri strategici sono ancora a portata di tiro, l’aviazione israeliana continua ad avere il dominio dell’aria svolgendo un’interdizione sempre più efficace contro depositi missilistici e lanciatori, oltre a continuare a colpire i quadri di comando degli ayatollah. Ogni contrattacco iraniano contro gli americani susciterebbe una reazione durissima. Per la stessa ragione è improbabile che gli attacchi su Israele possano ancora intensificarsi e diventare più pericolosi con l’uso di armi non convenzionali. Insomma è del tutto improbabile che la distruzione di Fordow susciti un conflitto aperto e generale, come alcuni temono.
Le prospettive in Iran
Vi è certamente una minaccia terroristica, che durerà per anni; ma questo è un tema che riguarda il problema di prospettiva più importante oggi, cioè le linee di conclusione del conflitto. Quel che Israele spera e che tutto il mondo dovrebbe desiderare, è il cambio di regime in Iran, la sostituzione della dittatura imperialista degli ayatollah con un altro sistema politico, aperto alle istanze di modernizzazione e libertà della popolazione e non aggressivo sul piano internazionale. L’apparato repressivo che è ancora in piedi impedisce con tutte le sue forze un’insurrezione popolare, come quelle tentate negli scorsi anni e decenni dai giovani e le donne di Teheran (che però, attenzione. sono una minoranza nel Paese). L’uscita più probabile da questa situazione è forse un colpo di Stato, dello stile del 25 luglio 1943 in Italia o della “rivoluzione dei Garofani” in Portogallo. Non sappiamo naturalmente se ci sono le forze per tentarlo. L’altra possibilità è un’implosione delle strutture statali, con la conseguente guerra civile, come in Libia e in Libano dopo le “primavere arabe”, in particolare per quanto riguarda i territori delle minoranze, come i curdi e i beluci. E infine potrebbe esserci un arroccamento del regime, con la continuazione sporadica della guerra e la speranza di risucchiare i soldati americani in un nuovo Vietnam: quello che Trump assolutamente non vuole.
La speranza di Israele
Queste diverse prospettive contano molto per Israele, non solo perché esse possono comportare rischi più o meno grandi di una continuazione della guerra con danni che potrebbero anche per una combinazione sfortunata di circostanze, essere ancora notevoli. Ma al di là di questo, la caduta del regime iraniano significa anche la disabilitazione degli apparati terroristici da esso creati e sostenuti e dunque la possibilità della costruzione di quel Medio Oriente pacifico, prospero e aperto che è l’ambiente cui lo Stato ebraico aspira da sempre.