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    La doppia crisi dell’Ucraina e dell’atomica iraniana – Una prova molto difficile per Israele

    I giornali quasi non ne parlano, concentrandosi piuttosto sulla nuova variante del Covid, sul “super Green Pass” o sulla complicata e ripetitiva partita a scacchi dell’elezione del Presidente della Repubblica. Ma il fatto più importante è un altro: stanno giungendo al pettine i nodi di due gravi crisi internazionali, i cui esiti non sono affatto chiari ma che potrebbero dar luogo a scontri militari gravi, vere e proprie guerre. Le crisi riguardano teatri abbastanza lontani fra loro e certamente indipendenti, ma sono unificate dal fatto di essere alimentate dall’ambizione di potere di soggetti internazionali aggressivi ma sostanzialmente deboli, in crisi economica e demografica, che potrebbero facilmente essere tenuti sotto controllo da un Occidente deciso e consapevole di sé, ma sono facilitati invece dalla confusione, dall’irresolutezza, dalla debolezza della direzione politica di Stati Uniti e dell’Europa.

     

    La prima crisi è quella che riguarda l’Ucraina. Le minacce vengono dalla Russia, che ha costruito un imponente apparato militare intorno al paese, cui ha già sottratto qualche anno fa contro ogni legge internazionale la Crimea e a quanto pare ora si appresta a invaderla. Si tratterebbe di una mossa decisiva per la ricostruzione del vecchio impero russo e poi sovietico nel cuore dell’Europa, la quale si troverebbe di nuovo sotto la minaccia diretta delle armate russe. In un certo senso sarebbe la premessa per una specie di ritorno alla situazione precedente al crollo dell’URSS. Contro l’aggressività di Putin si sprecano le parole, ma né l’Europa né l’America ha accennato alla mossa ovvia che bloccherebbe l’avventura russa: portare anche qualche contingente simbolico di truppe occidentali in Ucraina. Putin giustamente l’ha definita “la linea rossa”. E’ probabile che la crisi si aggravi ancora e che alla fine Putin ottenga, in cambio a uno stop all’invasione, proprio l’impegno a non aiutare militarmente l’Ucraina e il riconoscimento di un diritto di supervisione e veto su quel paese analogo a quello che ha per la Bielorussia, di recente sostenuta da lui nelle provocazioni contro Polonia e Lituania. Si spenderebbero allora molti bei discorsi sulla pace e l’amicizia, ma l’impotenza europea e la sua “finlandizzazione” sarebbero certificate nei fatti, così come la fine della garanzia americana sul nostro continente.

     

    L’altra crisi è quella dell’atomica iraniana. E’ dalla caduta dello Scià, quasi mezzo secolo fa, che l’Iran ha identificato Israele come il nemico locale da distruggere e gli Usa come quello globale. A lungo i presidenti americani avevano cercato con un certo successo di contenere gli ayatollah circondandoli con una catena di alleanze e basi militari. Fu Obama nove anni fa a decidere di cambiare politica, riconoscendo a Teheran un’egemonia regionale a spese dei vecchi alleati, fra cui Israele e Arabia. Il trattato che insieme a Europa, Cina e Russia strinse con l’Iran aveva l’obiettivo di calmare le tensioni in Medio Oriente, trasformando per incanto con una firma su un pezzo di carta il bandito in poliziotto. Se poi qualcuno veniva rapinato dal poliziotto, peggio per lui. Ma ovviamente l’operazione non poteva funzionare. L’Iran continuò nella sua politica di aggressione dei vicini, nell’armamento atomico e nella sua ostilità strategica all’Occidente, come aveva predetto Netanyahu. Fece bene poi Trump ad annullare l’accordo, esercitando con le sanzioni e altri mezzi una politica di “massima pressione” economica nei confronti dell’Iran, che iniziava a piegarlo. La vittoria di Biden ha cambiato di nuovo il quadro. Il nuovo presidente democratico annunciò da subito che sarebbe tornato alla politica di Obama e che avrebbe rimesso in vigore il trattato, illudendosi che l’Iran fosse ben contento di tornarvi e disposto a rispettarlo. I fatti hanno dimostrato platealmente che non è così. Gli ayatollah hanno reso pubblici, da segreti che erano, i loro lavori di armamento nucleare e li hanno ancora intensificati; hanno continuato a sequestrare navi nel Golfo Persico, a esercitare potere imperiale in Siria, Libano, Yemen, ad aggredire chi non si sottometteva e a cercare di creare le premesse per la distruzione di Israele.

     

    Dopo lunghi rinvii che servivano a preparare il combustibile per la bomba nucleare, ora l’Iran è sul punto di averne accumulato abbastanza ed è tornato ai negoziati (solo indiretti, peraltro) con gli Usa accettando un unico punto di discussione: abolizione delle sanzioni e risarcimenti economici per quelle passate, senza concedere nessuna limitazione del proprio armamento o comportamento imperialistico. Ormai il fallimento delle trattative è chiaro a tutti, anche agli Usa, che hanno dichiarato di essere disponibili a considerare “altri mezzi” per impedire all’Iran di entrare nel club nucleare. Non si capisce bene se Biden sia abbastanza deciso per usare le forza militare e neppure se Israele ne abbia i mezzi. Ma è chiaro che la distruzione militare degli impianti atomici persiani è il solo mezzo per impedire che un Iran fornito di armi nucleari, rafforzato dalla sconfitta Usa in Afghanistan e dall’incapacità dei suoi nemici di fermarlo con la forza, eserciti il suo potere su tutto il Medio Oriente e in particolare possa operare contro Israele, protetto dalla dissuasione atomica (vale a dire: se provate a fermarmi militarmente, io vi bombardo con le armi nucleari).

     

    È una situazione difficilissima. O Israele, con o senza l’appoggio americano, riesce a colpire gli impianti nucleari iraniani ora, prima che la bomba iraniana sia militarmente disponibile – e questo significa la guerra nei prossimi mesi, con un avversario non ancora nucleare, ma forte e capace coi suoi satelliti di martellare Israele con migliaia di missili al giorno. O non ci riesce, e la guerra arriverà quando l’Iran deciderà di essere pronto e difeso dalla dissuasione nucleare.

     

    Le due crisi si intrecciano per la debolezza dell’Occidente e anche per il fatto che la Russia è alleata (fino a un certo punto) dell’Iran in Medio Oriente, ma anche che i confini dell’Iran verso il Caucaso non sono lontani dal Mar Nero su cui si affaccia l’Ucraina. In mezzo si trova la Turchia, che a sua volta ha un rapporto ambiguo con la Russia, l’Iran, Israele. La partita è aperta ed è assai complessa. C’è solo da sperare che Israele sappia giocarla bene, perché l’appoggio dell’Europa non c’è o non conta e quello degli Usa non è affatto assicurato.

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