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    Israele e la nuova frontiera di difesa

    Non ci proverò ancora una volta a insistere nello spiegare le buone ragioni di Israele, nel raccontare la storia, nell’insistere sulla evidente vicenda dei compromessi e patteggiamenti, sulla ricerca di pace sempre elusa dai palestinesi. Non c’è logica che possa convincere coloro che marciano nelle strade contro Israele con le bandiere di Hamas, come non c’è mai stata logica, nella storia, che abbia potuto convincere chi odia, o disprezza, o biasima il popolo ebraico. La guerra è stata, nelle sue ragioni e nel suo svolgimento, molto semplice: Hamas ha attaccato i cittadini nella sua guerra di distruzione terroristica, Israele ha risposto. Anche la storia del popolo ebraico nel suo ritorno a casa è semplice: Israele è l’unico Paese che da tremila anni abbia avuto la medesima capitale, ideale o reale. Ma ambedue vengono, insieme, messe in discussione, e il diritto a difendersi viene travestito da apartheid, occupazione, pulizia etnica… Ogni elemento è parte della cucina nel calderone della delegittimazione di un popolo indigeno, per la gran parte strappato dalla sua terra, che ha sofferto nel mondo persecuzioni incomparabili, fino a costruire il proprio ritorno in una terra contestata, ma mai abbandonata del tutto. Chi sa la storia sa che Gerusalemme è stata una città a maggioranza ebraica già dall’800, che gli ebrei pur cacciati, non hanno mai abbandonato il presidio di molte città, e anche che Gerusalemme è rimasta la stella polare, morale, culturale, religiosa dell’ebraismo così come la lingua ebraica ha seguitato a essere una lingua viva alle più diverse latitudini, fino alla grande rinascita di Eliezer Ben Yehuda. Questa convinzione, ovvero quella della legittimità nazionale di Israele è stata di nuovo contestata proprio mentre qui la gente correva nei bunker per ripararsi dalla pioggia di missili: quando si sente gridare dalla folla a Londra o a Roma “from the rever to the sea Palestine will be free” non è libertà di opinione. “Free” vuol dire libera: libero, vuol dire finalmente se stesso; nella interpretazione più estrema dell’antisemitismo: un mondo privo di ebrei, privo di Israele delegittimato della sua presenza fondamentale in quanto Stato del Popolo ebraico. Questo si sente adesso: il rifiuto di consentire a Israele il palese diritto all’autodifesa di ogni popolo, perché il popolo ebraico non l’ha mai avuto nei secoli. Quando l’Unione Europea insinua che Israele agisca senza moderazione, prima di tutto non conosce i numeri e non sa quindi che Hamas ha sparato 4340 missili di cui kipat Barzel ha bloccato il 90 per cento, ma che hanno distribuito terrore, distruzione, feriti e 12 morti in tutta Israele, fino nella capitale e fino a Tel Aviv, e che ogni nido di missili era nascosto secondo i piani di guerra di Hamas, ben preparato, in una struttura civile, case, scuole, ospedali. Israele ha messo un’immensa cura nel cercare di evitare, nell’impossibile situazione, la perdita di civili, tanto che sui 200 morti circa 160 sono terroristi, con nome e cognome. L’IDF non poteva altro che ottemperare all’indispensabile dovere di fermare i missili: ogni esitazione, ogni ritardo, sarebbe stata semplicemente complicità con un nemico che ha giurato nella sua stessa Carta costitutiva di uccidere gli israeliani e gli ebrei in generale.

    Le risoluzioni dell’UE, per fortuna bloccata dal gesto coraggioso dell’Ungheria che ha posto il veto, chiedeva un immediato cessate il fuoco. Sarebbe stata un’altra forma di delegittimazione del diritto di Israele alla vita in quanto Paese libero nei suoi confini: è chiaro a chiunque che una guerra giuocata da Hamas mettendo a difesa dei suoi missili i due milioni di cittadini di Gaza non può essere conclusa lasciando in piedi il sistema terroristico che spara nelle vite delle persone. Questo significa che Israele non avrebbe potuto, neppure secondo il diritto internazionale, abbandonare i suoi cittadini alla strategia di Hamas che fa proprio della casualità terrorista dei suoi attacchi, per altro coordinati e finanziati nell’ambito della strategia di dominio islamista dell’Iran, il nocciolo della sua Guerra Santa.  Adesso possiamo solo sperare che i risultati ottenuti dalla legittima difesa di Israele blocchi il fuoco per un tempo lungo.  Che gli aiuti umanitari non si trasformino in potere e armi per Hamas. 

    Ma qui interviene l’elemento della delegittimazione, che ha tante strade diverse, e che abbiamo visto all’opera sul tema del diritto alla vita. L’Italia ha diritto a difendersi, ce l’ha la Francia e ce l’hanno gli USA: se qualcuno ne bombardasse la capitale, finché l’esercito non fermasse la fonte del danno bloccando i nidi dei missili, questi Paesi non si fermerebbero. Israele ha accettato la tregua assediata dalla pressione internazionale, pur consapevole che sarebbe stato in suo potere distruggere il nemico se l’avesse voluto, certa che l’odio e la propaganda nemica avrebbe immaginato subito la prossima puntata, avrebbe proseguito sulla stessa strada. D’altra parte, c’è ormai, come si è visto anche nell’atteggiamento di Biden, la chiara sensazione che a causa della strategia islamista guidata dall’Iran, non solo Israele ma l’intero mondo occidentale corra un pericolo senza precedenti. Sono due pensieri antagonisti e compresenti, che in questi giorni si scontrano a Vienna dove si discute il ripristino del folle accordo JCPOA con l’Iran. Gli USA in una deriva insensata lo perseguono, rischiando la destabilizzazione di tutto il Medio Oriente. La prossima guerra di difesa si combatte su questa frontiera.

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