Il 17 febbraio 1600, esattamente 420 anni fa, Giordano Bruno veniva bruciato in Campo de’ Fiori. Siamo nel pieno della Controriforma, la mattinata possiamo immaginare che non sia stata così assolata e calda come oggi, data l’assenza dell’effetto serra, ma piuttosto fredda e pungente. Il luogo del rogo non era quello dove verrà eretta la statua di Ettore Ferrari, artista massone, il 9 giugno 1889, nel periodo per gli ebrei caratterizzato dall’emancipazione, ma davanti al cinema Farnese, tra piazza Campo de’ Fiori e via dei Baullari. Da una testimonianza, il filosofo degli infiniti mondi, venne bruciato con la mordacchia per evitare che potesse arringare la folla con le sue idee eretiche.
Il 17 febbraio non era una data scelta a caso, ma era l’inizio della quaresima, il mercoledì delle ceneri. Era dunque appena passato il carnevale, ricorrenza funesta per gli ebrei che dal 1467 erano costretti a partecipare al “Pallio delli Judei” da Piazza Venezia per via del Corso per far divertire il popolino. Dopo il 1550, poco prima della creazione del Ghetto, furono costretti a correre completamente nudi e nel 1583 dopo aver consumato un lauto pasto così da essere più goffi. La folla seguiva il palio dietro ai cordoni che tracciavano il percorso di gara e tirava fango e frutta marcia. La corsa fu abolita soltanto nel 1668 tra le proteste del pubblico e il versamento annuo di 300 scudi da parte della comunità ebraica.
Torniamo a quella mattina del 1600 e pensiamo in una Roma cupa e oppressa dalla Controriforma cosa potesse essere assistere alla morte del grande filosofo e quale potesse essere la reazione degli ebrei chiusi nel Ghetto da 45 anni, esattamente dal 1555, separati da poche strade e vicoli (ancora non esisteva l’arteria di via Arenula). Immaginiamoci il timore di sapere che un eretico veniva messo al rogo nello stesso luogo dove il 9 settembre del 1553, Rosh HaShanà (il Capodanno ebraico 5314), il Talmud era stato bruciato insieme a numerosi altri libri sacri sequestrati nelle case degli ebrei. Era il risultato micidiale dell’azione inquisitoria diretta di Gian Pietro Carafa, capo del Tribunale del Sant’Uffizio e futuro Paolo IV, ovvero il pontefice che istituì il ghetto di Roma nel 1555.
Sarebbero passati in tutto 315 anni prima che i cancelli e le mura del Ghetto fossero abbattuti. Una targa posta dal Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, nel 2011, alle spalle della famosa statua del filosofo, ricorda l’evento. “La pergamena brucia, ma le lettere volano via”, sono le parole incise sulla grande pietra d’inciampo. Una delle caratteristiche della nascita delle dittature è proprio il rogo dei libri. A questo proposito vengono in mente le cosiddette Bücherverbrennungen in Germania nel 1933 durante le quali venivano bruciati tutti i libri non corrispondenti all’ideologia nazista.
Dal rogo dei libri a quello degli uomini, il passo nella storia è drammaticamente breve. E l’esecuzione di Giordano Bruno, condannato alle fiamme in quanto eretico nella triste elencazione delle pene capitali a seconda del reato, è qui a ricordarcelo. Ma soprattutto quello che ci insegnano questi due funesti eventi è la difesa della libertà anche a prezzo della vita. La libertà di vivere la propria fede, come per gli ebrei ai quali veniva tolto il libro che la caratterizzava, quella di propagare le proprie idee, quegli infiniti mondi che Giordano Bruno intuiva e che la fisica invece ritiene oggi possibili.
La statua è ancora lì, malgrado nel fascismo del Concordato si fosse tentato di rimuoverla, rivolta verso il Vaticano, con lo sguardo torvo e severo di chi è stato colpito dall’ingiustizia e dall’oscurantismo. E anche la targa è lì. Un monito ma anche una speranza che la libertà può essere tolta per un periodo di tempo, anche se lunghissimo come trecento anni, ma mai per sempre.