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    Presentato “Rapito” di Bellocchio alla Comunità Ebraica di Roma. Il Rabbino Capo Di Segni: “Un film importante e aderente alla storia. Ci preoccupa che qualcuno ancora difenda le conversioni forzate”

    Una serata
    di grandi emozioni e un’occasione di riflessione ieri per la presentazione
    organizzata dalla Comunità Ebraica di Roma del film “Rapito” di Marco
    Bellocchio. Con un introduzione del Rabbino Capo Riccardo Di Segni, che ha
    preceduto la proiezione del film, si è aperto l’evento a cui hanno partecipato
    alcuni esponenti e opinion maker del mondo ebraico italiano. Il film ha
    sollevato una serie di spunti e apprezzamenti che hanno arricchito il dibattito
    finale tra il pubblico, gli attori principali oltre che al regista Marco
    Bellocchio, a cui sono andati i ringraziamenti della Presidente della Comunità
    Ebraica di Roma per aver compiuto questa opera che “restituisce verità ad un
    fatto storico, una ferita da sempre rimasta aperta”.

    Il film,
    basato sul libro di Daniele Scalise, affronta la vicenda del “caso Mortara”, il
    bambino ebreo di Bologna che nel 1858 a 6 anni viene forzatamente sottratto
    alla famiglia dopo essere stato convertito di nascosto da una domestica
    cattolica, che lo aveva battezzato ritenendo l’atto necessario per salvare
    l’anima del bambino malato.

    Le diverse
    dimensioni toccate dal film sono state rilevate dal Rabbino Capo Riccardo Di Segni,
    che lo ha definito «estremamente commovente, aderente ai fatti e che fa
    crescere una serie di pensieri sulla storia ebraica e italiana durante il
    Risorgimento».

    «La
    vicenda del caso Mortara, infatti – ha aggiunto Rav Di Segni – è una vicenda
    molto complessa che rispetto a quello che accadeva nello Stato della Chiesa,
    non era una novità perché di sottrazioni forzate di bambini alle famiglie ce ne
    sono state molte. Non erano eventi sporadici. Rappresentavano un incubo per gli
    ebrei che vivevano nello Stato Pontificio. Tuttavia, il caso Mortara capitò in
    un momento storico molto particolare» in quanto costituì un’importante
    argomentazione per chi credeva nell’unità d’Italia: «La durezza,
    l’intolleranza, l’assoluta fermezza nel non restituire questo bambino
    rappresentarono un motivo di grande polemica contro papa Pio IX e divenne una
    questione politica, mentre per noi rimane una questione religiosa».

    Rav Di
    Segni ha anche sottolineato, nel corso del suo intervento, come alcune reazioni
    pubblicate dai giornali siano la conferma del fatto che una parte del mondo
    cattolico ancora non riesce ad accettare il giudizio e la rappresentazione
    negativa dello scempio del rapimento dei bambini in nome della fede cristiana.
    «Quello che ci preoccupa ancora di più è che tuttora questa storia venga
    vissuta nel mondo cattolico come un’accusa ingiusta verso un’azione legittima
    dal punto di vista canonico e istituzionale, in quanto rappresentava la volontà
    di salvare l’anima ad un bambino».

    «Le
    polemiche di questi giorni quindi rappresentano una cartina di tornasole dei
    rapporti ebrei-cristiani, – ha proseguito il Rabbino – perché il tema della
    conversione forzata e della sottrazione dei bambini è ancora uno tra i più
    dolorosi, un nervo scoperto. Che ci sia qualcuno che ancora lo difenda ci
    lascia non tanto sorpresi quanto veramente preoccupati».

    Al termine
    della proiezione, grande vivacità del pubblico che ha rivolto numerose domande
    agli ospiti d’eccezione. Tanti erano curiosi della difficoltà di immergersi in
    ruoli così difficili. In particolare, Barbara Ronchi, che nel film è Marianna
    Padovano, madre del piccolo Edgardo, si è commossa pensando alle emozioni
    provate nell’immedesimarsi nella madre ebrea a cui era stato sottratto il
    figlio. Paolo Pierobon, che ha portato in scena la figura di papa Pio IX, ha
    invece parlato di come sia stato difficile per lui vestire i panni del Papa.

    Ha
    assistito alla proiezione anche una esponente della famiglia Mortara, Eléna,
    che ha ringraziato il regista a nome di tutta la famiglia, ricordando come
    abbia sempre sentito parlare a casa “dello zio prete” e rivendicando a distanza
    di decenni l’operato della famiglia per tentare di ottenere la restituzione mai
    avvenuta del bambino, ricorrendo ad un clamore mediatico la cui efficacia è
    ancora oggetto di discussione.

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