«Ho sempre pensato solo a sopravvivere» ha spiegato Emanuele di Porto a centinaia di studenti che hanno ascoltato la sua testimonianza all’evento inaugurale dei PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) 2022-23 organizzato dalla Fondazione Museo della Shoah di Roma e presentato al Teatro Palladium. La Fondazione Museo della Shoah aderisce al progetto PCTO dal 2017 e questo incontro fa parte di un percorso che vedrà i ragazzi impegnati in attività di studio ed approfondimento scolastico nel corso dell’ultimo anno di liceo.
L’iniziativa della Fondazione è stata creata su misura per gli studenti, coinvolti attraverso i social media (la Fondazione è la prima realtà in Italia che tratta di Shoah ad avere un profilo tiktok), mappe interattive, video-testimonianze, numerose fonti di eccezionale valore storico-culturale, contributi di studenti universitari e di studiosi come lo storico Marco Caviglia, direttore del progetto. Tutto questo per incentivare gli studenti a partecipare attivamente, attraverso una didattica interattiva ed attuale.
In occasione di questa presentazione, Mario Venezia, presidente della Fondazione Museo della Shoah, ha evidenziato l’importanza di trattare il drammatico tema della Shoah attraverso una partecipazione delle diverse generazioni. L’iniziativa è stata anche particolarmente apprezzata dall’Assessore alla Cultura al Comune di Roma Miguel Gotor, secondo cui «tutto questo ci racconta l’abominio, la tragedia più profonda che l’Occidente è stato capace di produrre nel suo cuore. Non serve soltanto ricordare o testimoniare. Dobbiamo anche avere sempre più consapevolezza storica, che deve trasferirsi di generazione in generazione». Quest’anno, ha annunciato Gotor, «dopo la pausa forzata del Covid riprenderemo viaggi della memoria anche grazie all’iniziativa dell’Assessore alla Scuola Claudia Pratelli che li organizza».
Il racconto di Emanuele Di Porto è stato il momento emotivamente più coinvolgente della giornata. Emanuele Di Porto era ancora un bambino quando il 16 ottobre del 1943 sua madre Virginia è stata arrestata e deportata nel campo di sterminio Aushwitz-Birkenau. All’epoca Di Porto viveva insieme ai suoi genitori e ad i suoi 6 fratelli nella stanza di una casa a Via della Reginella che condivideva con una ventina di famigliari. «Mio padre era un venditore ambulante, vendeva souvenir. Se guadagnava si pranzava altrimenti no. Io ho fatto la terza elementare e a soli 8 anni ho lasciato la scuola ed ho cominciato a lavorare. Bussavo casa per casa, compravo roba usata e la rivendevo» ha raccontato agli studenti.
La mattina del 16 ottobre, sua madre venne fermata a Piazza Mattei e caricata su una camionetta dei nazisti. Vedendo la scena dalla finestra di casa, Emanuele scese per raggiungerla e salì sulla camionetta. Dopo averlo rimproverato, la madre riuscì a convincere i nazisti che il bambino non era ebreo e a farlo scendere dalla camionetta. Una volta in salvo il bambino fuggì e non sapendo dove andare raggiunse il capolinea del tram. È allora che salì su una vettura su cui restò per due giorni, aiutato da bigliettai e tranvieri.
Particolarmente commovente il ricordo del giorno della Liberazione quando Di Porto scende in strada e mischiandosi alla folla raggiunge Piazza Venezia. Qui, trovandosi sotto al balcone di Mussolini, con spirito di libertà ed entusiasmo, inizia istintivamente ad urlare «sono ebreo! sono ebreo!».
Come ha raccontato ai ragazzi dei numerosi licei che hanno ascoltato la sua testimonianza Di Porto non avrebbe più rivisto sua madre, assassinata nelle camere a gas appena arrivata ad Auschwitz.
A precedere la testimonianza di Di Porto, gli interventi degli storici Federico Goddi ed Isabella Insolvibile sulla stampa, sulla preparazione dell’opinione pubblica alle leggi razziali e sugli eventi che hanno portato all’Armistizio. Goddi in particolare ha evidenziato l’importanza degli organi di stampa nella formazione di idee antisemite. «Tutta la galassia di uomini come Paolo Orano o come il Ministro dell’educazione Giuseppe Bottai sviluppano una forma di razzismo e di antisemitismo all’interno del fascismo molto più efficace del razzismo biologico, razziale, proveniente dal Nord Europa, che non ha l’appeal degli intellettuali usati da Mussolini» ha spiegato Goddi. «L’antisemitismo fascista doveva avere anche delle radici sociali perché l’obiettivo era quello di far presa molto di più su una nazione che non aveva una tradizione antisemita forte come quella tedesca. Quindi anche il linguaggio doveva essere alla portata dell’italiano medio».