Le storie di Hila e Naama descrivono in maniera lucida la crudeltà e la purezza del male perpetrati nel massacro del 7 ottobre. A tal proposito, durante l’evento tenutosi al Pitigliani, organizzato dall’associazione europea Brit Am, insieme alle sopravvissute, sono intervenute l’onorevole Lia Quartapelle e la giornalista del Messaggero Franca Giansoldati. “Ciò che mi ha realmente colpito del mio viaggio in Israele è la dimensione del trauma. – racconta l’onorevole Quartapelle, che sottolinea la forza dell’unità sprigionata dalla sofferenza di un eccidio di tale portata. – Le reti si sono strette e, parlando con il responsabile del primo soccorso dell’ospedale di Ashkelon, mi sono resa conto che non mi stava raccontando solo la sua storia, ma quella di tutti”.
“Guarda Hila! Ci sono anche i fuochi d’artificio!” “Che hai detto? Lion non ti sento, la musica è troppo alta” “Ho detto che ci sono i fuochi d’artificio, guarda il cielo!!” Non sono fuochi d’artificio. Sono i primi dei tremila razzi lanciati da Hamas il 7 ottobre 2023. È l’inizio dell’incubo. Un incubo che oggi, più di sei mesi dopo, ancora perseguita Hila e Naama, nel sonno e nella veglia.
Sono le 6:30 del mattino al Nova Festival quando Hila, bartender di 25 anni, è costretta a barricarsi, assieme all’amico manager Lion, nel locale dove sta lavorando. Confusi, chiacchierano a bassa voce, chiedendosi cosa stia succedendo e quando potranno tornare a lavorare. Passa mezz’ora, poi un’ora, poi d’improvviso il manager si dirige verso Hila: “Ci sono missili, è pericoloso, fuggite”. È il suo angelo. Tutti i ragazzi rimasti nel locale verranno rapiti o uccisi.
Alle 6:30 Naama, 26 anni, team manager, è seduta in macchina con tre amici ed è bloccata nel traffico del Nova Festival, quando alzando lo sguardo capisce che stanno bombardando. Suona il clacson, urla: “Spostatevi!!”, ma la folla non le dà modo di muoversi. Rimane lì. Passano pochi secondi, o forse minuti, poi iniziano gli spari. E le grida. Un ragazzo urta la macchina, guarda dentro: “Scappate!! Stanno uccidendo tutti”. I ragazzi scendono e iniziano a correre. Nella fuga, Naama viene spinta e finisce in un cassonetto della spazzatura. Si nasconde lì con altre quindici persone. Per sei ore.
Hila esce dal locale, sale in macchina e imbocca la prima strada libera. Percorre qualche kilometro, poi sente gli spari. La folla urla, Hila ha le vertigini. Scende dalla macchina, ferma una coppia per capire cosa succede ma l’uomo non le dà tempo di domandare e grida: “I terroristi! Sono ovunque, ci stanno ammazzando!”. Da quel momento vuoto. Corre, corre per quattro ore. Sente urlare. “Allah Akbar”. “Allah Akbar”. Sente ridere. Ridono mentre uccidono, violentano, torturano. Percorre 20 km nel vuoto, fino alla città di Ofakim. Rimane lì altre quattro ore.
È passato mezzogiorno. Naama è immobile da un’eternità e non sente più le gambe. Una ragazza accanto a lei piange e sussurra: “Non ne posso più, devo muovermi”. Naama la implora di non farlo ma è troppo tardi. Un uomo con una fascia verde legata sulla fronte ed un kalashnikov in mano apre il cassonetto. E spara. Per un istante spinte strattoni e graffi. Poi silenzio. Naama viene colpita quattro volte, tre alle gambe ed una al braccio. Per un po’ non riesce a muoversi. Convinta di morire, chiama la madre. “Ti voglio bene” dice, poi attacca.
Dei volontari trovano Hila. Ha gli occhi aperti ma non sembra cosciente. La caricano in macchina e la portano a Beer Sheva, da lì a Tel Aviv. Sono le 19:30 quando rientra in casa, sconvolta. Accende la TV e nella trafila di video pubblicati riconosce il suo gruppo di amici. Tre uccisi. Tre rapiti.
Un paramedico solleva dalle braccia Naama e la tira fuori dal cassonetto. Ha un sacchetto di plastica in testa, probabilmente per fingere di essere morta. È l’unica viva, in realtà. Adesso è sdraiata per terra. Si sentono ancora spari. Un poliziotto li raggiunge, ma mentre il paramedico chiama l’ambulanza, una moto si avvicina dalla direzione delle pallottole. Sopra, due fasce verdi, e un RPG. Sta per sparare, ma il poliziotto punta la pistola e fa fuoco. Nel tragitto fino all’ospedale perde metà del suo sangue. È incosciente. Viene operata d’urgenza. Naama è salva.
Hila, 14 aprile 2024: “I miei figli cresceranno qui. Il mio amore per questa terra prevarrà sempre sugli attacchi di panico e sulla paura che mi accompagnerà per il resto della vita. Sogno uno stato ebraico ed uno palestinese che possano coesistere.”
Naama, 14 aprile 2024: “La mia vita adesso è complicata, ho forti dolori dovuti alle cicatrici e di notte fatico a dormire pensando ai miei amici. Ma sono convinta che la nostra generazione reagirà, sono convinta che riscoprirà una forza interiore che ci permetterà di andare avanti. So che ce la faremo”.