Pubblichiamo di seguito l’intervista fatta a Silvana Ajò z.l. realizzata per il libro “Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione”, Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, ed. Guerini e associati, 2006.
Dopo l’8 settembre 1943 e prima del 16 ottobre, aveva lasciato la sua abitazione abituale per rendersi irreperibile?
Durante i bombardamenti a S. Lorenzo, siamo andati in un paese vicino Viterbo che si chiama Graffignano, dove c’era una vecchia balia di una mia zia che ci ha ospitato. Il 25 luglio stavamo lì e quindi non abbiamo partecipato alla grande gioia per la caduta del fascismo. Poi, siccome c’erano ancora le Leggi razziali e la situazione era incerta, il sindaco di Graffignano, il podestà che era anche parente di coloro che ci ospitavano, gentilmente ci fece sapere attraverso questi nostri conoscenti, che sarebbe stato il caso di andarcene dal paese e quindi siamo tornati a Roma. Non c’erano ancora pericoli imminenti, tant’è vero che il negozio di mio padre a via del Tritone è restato aperto e noi abbiamo continuato una vita normale. Abitavamo a via Agri, una parallela di via Tagliamento, nel quartiere allora chiamato Savoia, dove c’erano varie famiglie ebree. Nel Kippur del 1943 siamo stati ospitati a casa dei sig.ri Dell’Omo a via Adige, dove essi avevano anche un ristorante.
Nel 1943 quali erano le notizie che giravano sulla sorte toccata agli ebrei negli altri paesi occupati dai tedeschi?
Nell’ottobre 1943, papà, che conosceva qualcuno al ministero degli Interni, ha saputo, attraverso voci di corridoio, che c’era uno strano movimento, si diceva che girassero delle strane circolari, non era chiaro cosa stesse accadendo, eppure c’era in atto qualcosa, per cui, poiché noi eravamo ebrei, poteva essere pericoloso rimanere a casa. Non avevamo idea che ci sarebbero state delle retate,però pensavamo che ci avrebbero cercato. Noi eravamo abbastanza in vista per il nostro negozio di forniture per sarti, papà era molto conosciuto, quindi era il caso di andare via. Fu detto a papà: ‘Fossi in voi, me ne andrei via da casa’, e infatti così facemmo, ma molti, compresa l’anziana sorella di mia nonna, che abitava a via Salaria, non l’hanno fatto. Le abbiamo detto: ‘Andiamo via tutti’, tanto più che arrivava una figlia da Genova con il marito di cognome Muggia e una bambina piccola in carrozzina, ma loro hanno risposto, e purtroppo molti l’hanno fatto: ‘Abbiamo una certa età, cosa vuoi che ci fanno’.
Purtroppo, non abbiamo mai creduto alle voci che giravano, non eravamo mai stati sollecitati da nessuno a scappare. Dall’estero arrivava ogni tanto gente che ci accennava, diceva, faceva… ma qui a Roma, non ci credevamo, sia perché eravamo integrati con la popolazione non ebraica, sia perché la stessa Comunità non fece ciò che avrebbe potuto, cioè, attraverso qualche sistema, cominciare a mettere dei dubbi nelle persone, poi ognuno si sarebbe regolato come credeva, ma questo purtroppo non è avvenuto, né si poteva immaginare quello che poi sarebbe successo. E poi non tutti potevano scappare, c’era chi non aveva i mezzi. I più colpiti sono stati quelli con i banchi a cui hanno tolto le patenti. Questi ambulanti,dopo il 16 ottobre 1943, hanno cominciato a farsi vedere di nuovo, si pensava che ormai il peggio fosse passato, e poi dovevano pur guadagnare qualcosa per sopravvivere e molti sono stati presi a causa delle spiate: davano 5.000 lire per un adulto e 3.000 per un bambino. Non abbiamo mai saputo quello che succedeva in Germania, in Polonia. C’erano alcuni che passavano per la città e raccontavano qualcosa, molti sono stati mandati al confino, ma noi, parliamoci chiaro, non ci abbiamo creduto. Anche a Graffignano c’era una famiglia al confino,ma non abbiamo mai chiesto loro nulla. Quando abbiamo lasciato la nostra casa, per evitare che vi entrassero sfollati, estranei, vi abbiamo messo i parenti di una nostra commessa, che avevano avuto l’abitazione bombardata a S. Paolo. Quando è finita la guerra, non se ne sono voluti andare spontaneamente ed è stato molto faticoso mandarli via. Quando siamo rientrati nella nostra casa, abbiamo visto che avevano aperto i cassetti, avevano tirato fuori le nostre cose più intime, ad esempio quelle che noi non usavamo poiché erano regali della maggiorità religiosa. Spesso chi era in affitto, dopo la guerra è stato cacciato via, ma anche per i proprietari non è stato facile,a volte non sono riusciti a riavere la propria casa.
Cosa si ricorda dei giorni immediatamente precedenti al 16 ottobre? Aveva avuto sentoreche stava per accadere qualcosa di grave?
All’inizio dell’ottobre del 1943, un cliente di papà, un carabiniere che dopo l’8 settembre era scappato, ci ha dato in mano le chiavi della sua casa, vicino a piazza Barberini, a via della Purificazione, dicendo: ‘Io e la mia famiglia siamo ritornati in Abruzzo dove siamo nati, quindi la nostra casa è a vostra disposizione’. È stato un atto di grande civiltà. Nel frattempo, mio padre Valerio con i due cugini, l’avvocato Aldo e il notaio Mario Fuà che abitavano a via Arno, nel Quartiere Trieste, si sono rifugiati in una casa bombardata di S. Lorenzo, dove una persona di fiducia, servendosi di una scala di fortuna, gli andava a portare da mangiare. Ancora non era successo niente, nessuna retata vera e propria, però si vociferava sempre più insistentemente che c’era qualcosa che non andava. La mamma, Enrica Ottolenghi, le mie due sorelle, Stefania e Marcella, e io, invece,siamo rimaste a via della Purificazione. Allora non era facile trovare un mezzo di trasporto, ma ricordo che la sig.ra Dell’Omo venne in via della Purificazione con una carrozzella presa in affitto – la famosa ‘botticella’ – e ci portò un grande recipiente con dentro la pastasciutta. A tutte queste persone, in seguito, abbiamo dato degli attestati di stima: abbiamo ricevuto atti di grande solidarietà,ma non è sempre stato così. Ricordo che quando siamo andati via di casa, volevamo affidare a una vicina un baule con un po’ di cose, e lei ha detto di no, è stato un gesto molto brutto. Ricordo anche che prima del 16 ottobre abbiamo preso il nome di alcuni napoletani che abitavano nel palazzo dove era nato papà, nel 1901, in piazza S. Battista Vico 40, poi abbiamo conosciuto delle persone che falsificavano i documenti, tra sui il sig. Guido Coen che è stato fra coloro che hanno contribuito ad aprire la scuola ebraica, una persona molto in gamba, ma discreto, i cui meriti, probabilmente per questo, non sono stati riconosciuti a sufficienza. Malgrado la situazione, noi ragazzi abbiamo continuato a studiare, come se fossimo a scuola, anche se stavamo a casa. Io ero un po’ incosciente, una volta andai a ritirare le carte annonarie con il nostro vero nome. Mamma in quel periodo ogni tanto andava da un fornaio, il sig. Gentilini, che le dava del pane,anche senza tessera annonaria. È stata fortuna se ci siamo salvati. Il carabiniere ci aveva lasciato in cucina una vetrinola piena di roba da mangiare che non abbiamo mai preso, proprio perché mamma diceva: ‘Mai toccare le cose che non sono nostre’.
Quando è successo il fatto dell’oro, ognuno di noi ha dato qualcosa, io però non mi ricordo assolutamente di aver fatto la fila, ci deve essere andato mio papà che, in seguito, si rammaricava di non avere più trovato la ricevuta dell’oro. All’epoca la richiesta dell’oro ci era sembrata molto strana, ma non ci aveva spaventato: è questa la cosa più terribile. Allora avevo 15-16 anni e avevo l’incoscienza della gioventù
Ci racconti dettagliatamente quello che accadde il 16 ottobre.
La mattina del 16 ottobre 1943 papà andava in giro con la bicicletta, lo faceva quasi tutte le mattine, qualcuno che conosceva l’ha fermato lungo il percorso, lui veniva da S. Lorenzo, e gli ha detto: ‘Guarda che sta’ mattina hanno fatto una retata al ghetto, nasconditi’. Quindi lui è tornato da noi, figuriamoci in quali condizioni, e non ci siamo più mossi da casa fino a dopo Natale.
Abbiamo subito telefonato a tutti quelli che conoscevamo per avvertirli di scappare, molti non li abbiamo trovati perché se ne erano già andati. Purtroppo gli zii che abitavano a via Salaria sono stati presi alle 6 di mattina, insieme alla figlia venuta da Genova e a tutta la famiglia: sono spariti nel nulla. Loro avevano un figlio che stava in Venezuela, era andato via dopo le Leggi razziali per continuare l’università, poi è diventato medico, e non si è mai perdonato di aver lasciato la famiglia in Italia. Sappiamo che i tedeschi non sono entrati dentro casa nostra. Chissà quali liste hanno usato i nazisti, di certo i commissariati avevano tutto, avevano registrato,ad esempio, chi aveva consegnato, in seguito alle Leggi razziali, la radio, gli uccellini in gabbia e altre cose quasi ridicole. Perché in una casa sono andati e nella strada vicino no? Sono domande che ci siamo sempre fatti, ma restano senza risposta.
Ci racconti quello che accadde nei giorni successivi al 16 ottobre.
Dopo c’è stato il saccheggio nelle case di coloro che erano andati via, da parte dei fascisti, dei nazisti, dei portieri e dei vicini. Ad esempio la casa dei miei zii, i Frassineti, a Torino, che furono tutti deportati, dopo la guerra fu ritrovata completamente vuota; mia madre bussò alla casa di una vicina, che era una conoscente, per avere notizie, questa ha aperto la porta e dietro di lei mia madre ha visto la camera da letto di mia zia.
Nei primi tempi il negozio è rimasto aperto, ma dopo il 16 ottobre abbiamo dovuto chiudere, nel frattempo papà aveva dato le cose più importanti a un amico che aveva un deposito a via Rasella. Gli aveva dato la macchina calcolatrice, pezze di seta, tutto ciò che sarebbe potuto servire se avessimo potuto riaprire il negozio. Dopo la storia di via Rasella e le Fosse Ardeatine, sono andata da questo signore e gli ho chiesto: ‘Scusi, ma con la roba nostra, ha avuto delle difficoltà?’ e lui rispose: ‘No, tutto a posto’. Ma quando è finita la guerra, quando abbiamo riaperto il negozio, lui ha detto che i tedeschi avevano portato via ogni cosa, invece poi abbiamo saputo che si era venduto tutto. Contemporaneamente avevamo lasciato dei filati alla figlia della portiera che era sarta, lei li ha tenuti, ma poi non abbiamo trovato più nulla poiché li aveva adoperati. Salvare la pelle era la prima cosa a cui si badava.
A un certo momento abbiamo avuto sentore che ci avevano riconosciuti poiché la casa di via della Purificazione era troppo vicina al nostro negozio, in via del Tritone: il portiere ci ha fatto capire che era il caso di andarcene e siamo stati in preda al panico poiché dovevamo cercare un altro posto. Ci siamo rivolti a un convento vicino S. Maria Maggiore e mi ricordo la faccia ‘di pietra’ di questa Madre superiora, eravamo disperati, non sapevamo che fare e lei ci ha detto, con un tono duro: ‘Mi dispiace, ma non possiamo ospitare, qui è tutto pieno’. Questo ci ha fatto capire che la scelta da parte dei responsabili dei conventi di aiutare, è stata personale. Poi una persona ci ha trovato una casa a S. Giovanni, a via Biella, una traversa di via Taranto dove siamo rimasti fino alla liberazione. A distanza di 60 anni abbiamo scoperto che era un fascista convinto, ciononostante ci ha aiutato lo stesso: il suo comportamento rimane per me un mistero. In quel periodo abbiamo cominciato ad avere notizie sulla sorte di qualche amico e parente. Ci vedevamo ogni tanto con alcuni cugini che abitavano nel quartiere Trieste, i Passigli, ed erano nascosti a via Ivrea. Nonostante i rischi,sono sempre uscita, siamo usciti tutti, mi incontravo con le amiche anche non ebree, figlie di Fano, ebreo, che era morto – e ancora oggi ci frequentiamo – ma nessuna sapeva dove ero nascosta. Con le cugine Fuà ci vedevamo sotto la statua di S. Francesco a S. Giovanni, facevamo delle passeggiate, ma nessuna sapeva dove abitava l’altra. I cugini Di Capua, che ora stanno in Israele, abitavano inviale della Regina; sono andati via da casa, sono stati per un breve periodo nella casa del carabiniere a via della Purificazione, e poi in un palazzo dove dovevano far finta di non esistere. Tutte le persone che io conosco si sono salvate per fortuna,ma non so tutte le storie.
Invece, il capofamiglia dei Sermoneta, che avevano un famoso negozio di rammendatrici e ricamatrici a via Tirso e abitavano a via Basento, fu preso dopo il 16 ottobre a causa di una spiata di un tedesco che aveva negozio a viale della Regina. Questo è successo a Roma, ma nelle altre città era diverso, ad esempio, la sorella di mamma, Rina Ottolenghi Frassineti, a Torino si è consegnata ai nazisti che avevano già preso il marito Alfredo e il figlio Rodolfo.
Per sopravvivere, papà e io abbiamo fatto ‘borsa nera’, andavamo nei dintorni di Roma, alla borgata Gordiani, al Quarticciolo, dove macellavano gli animali; noi avevamo qualche filato, qualcosa del negozio che serviva per barattare e che ci è stato molto utile.
Ho scritto un diario di quei giorni in cui ricordo che annotavo come fosse una grande felicità avere un quarto di latte in cambio di un filato:situazioni che oggi fanno sorridere. Alcune cose, con un prezzo un po’ maggiore,le rivendevo ad altra gente. Avevamo portato con noi dei bottoni di tutti i tipi dentro alcuni sacchi che, mentre eravamo nascosti, avevamo provveduto a dividere a seconda della grandezza e del colore.
Ci sono stati molto utili quando abbiamo riaperto il negozio, ma non avevamo più nulla e allora ci siamo venduti tutto quello che ci era restato, ad esempio quello che avevamo vinto in occasioni particolari, a tombola, tutte cose di poco valore: questo fa pensare che nella vita anche ciò che sembra inutile, può invece risultare provvidenziale. Gli americani comperavano tutto, abbiamo ricominciato così. Ci siamo arrangiati,per sopravvivere il cervello si mette in movimento.
Noi stavamo fra la via Appia e la Tuscolana, quando ci hanno detto che erano entrati gli americani, mio padre non ci ha creduto e non ci ha fatto uscire; quindi noi, fino alla mattina dopo, non abbiamo visto gli alleati, ma abbiamo visto i nazisti che se ne andavano. Mi ricordo la prima visione degli americani su via Tuscolana, come nei film, il soldato di colore di corporatura grossa, con il casco. Per noi è stata una vera liberazione, potevamo finalmente uscire, tornare alla vita normale.
Silvia Haia Antonucci, Le interviste, in Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, a cura di Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Milano, Guerini e Associati, 2006, pp. 95-134