Si chiama Ebrahim Raisi, indossa il turbante nero dei Seyed, cioè di coloro che pretendono la discendenza da Maometto, usa il titolo di Hojat-ol-eslam, che è quello immediatamente inferiore nella complessa gerarchia clericale sciita alla massima carica di Ajatollah. Di mestiere ha fatto il pubblico ministero della capitale Teheran, poi il procuratore generale della repubblica islamica, infine il capo dell’intero sistema giudiziario iraniano. In questi ruoli è stato responsabile direttamente o indirettamente di torture, arresti arbitrari, esecuzioni capitali di avversari politici e religiosi, omosessuali e criminali comuni in quantità tale da meritargli il soprannome di “macellaio”. Per chi non lo sapesse, vale la pena di ricordare che l’Iran occupa un posto di eccellenza nel mondo per numero di esecuzioni capitali: secondo di poco solo alla Cina che ha venti volti più abitanti. Raisi però da qualche giorno ha cambiato mestiere, ora fa l’ottavo presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, eletto con un ottimo risultato apparente, il 72% dei voti espressi, che però perde tutto il suo valore se si tiene conto che il numero dei votanti è stato inferiore a tutte le elezioni precedenti e catastroficamente basso, soprattutto per un paese dove la vita pubblica è controllatissima, come l’Iran: appena il 48%.
Il senso della sua carica diminuisce ancora se si tiene conto che nel sistema iraniano il presidente è un esecutore o al massimo un uomo di pubbliche relazioni, com’era il suo predecessore Rouhani, mentre i potere vero è in mano alla “Guida Suprema”, Ali Khamenei, il successore di Khomeini. Costui controlla ancora il paese e senza dubbio Raisi ha vinto non perché fosse il candidato più popolare nel paese ma perché Khamenei lo ha scelto; ma costui è anziano e non sta bene di salute, e Raisi è anche il principale candidato alla sua successione, condividendo con lui la linea dura contro l’opposizione interna e certamente anche l’imperialismo e l’odio di Israele che sono le chiavi della politica iraniana da quarant’anni in qua. La nomina di un personaggio del genere comunque indica la scelta del regime, è un segnale forte inviato a tutto il mondo: l’Iran non intende cambiare la sua aggressività, la sua politica imperialista, il suo tentativo di distruggere Israele, la demonizzazione dell’Occidente e degli Stati Uniti, il suo piano di armamento nucleare. Tocca agli altri paesi adattarsi, se ci riescono. Se no dovranno affrontare la violenza del regime, spesso impartita con mezzi subdoli e non dichiarati, come gli attentati all’estero e nei paesi obiettivo, attacchi anonimi per mezzo di droni, razzi, mine e bombe mai ammessi o dichiarati, anzi spesso negati anche di fronte all’evidenza; soprattutto l’uso di movimenti terroristici diretti dall’Iran come burattini o fantocci, nonostante la loro ostentazione di radicamento nelle nazioni dove si trovano: innanzitutto Hezbollah, che dal Libano si è espansa in Siria, poi Hamas, Jihad Islamica e anche in parte Fatah fra i palestinisti, gli Houti in Yemen, molti movimenti in Iraq, negli Emirati del Golfo, in Bahrein, Egitto, Sudan e altrove.
La prova di questo segnale di continuità, anzi di intensificazione della politica imperialistica e guerrafondaia si è avuta pubblicamente alla cerimonia di insediamento di Raisi. In prima fila c’erano i rappresentanti dei movimenti che tutto il mondo classifica come terroristi, ma che per il regime iraniano sono amici, allievi, alleati disponibili, sostanzialmente strumenti politici. A fianco loro, e certe volte dietro a loro, in posizioni meno eminenti, stavano gli stati e i movimenti antioccidentali, fra cui con molto onore la Russia, alleata e concorrente in Medio Oriente e la Cina, con cui l’Iran ha stretto un patto economico-politico di lunga scadenza che lo subordina all’imperialismo mondiale cinese. Non c’erano naturalmente americani, inglesi, israeliani; ma invece l’Unione Europea aveva scelto di non mancare e di mandare il più importante burocrate del direttorato delle relazioni internazionali, ricompensata per quest’atto di accettazione senza principi da un posto di terza fila, proprio dietro Hamas che pure l’UE ha riconosciuto come un movimento terrorista. Non c’è stata una protesta eruropea per questa evidente umiliazione. Il cerimoniale diplomatico è fatto di segnali chiarissimi per gli occhi di chi sa leggerli e questo mostrava la disistima anche dell’Iran per i tentennamenti velleitari dei dirigenti dell’UE.
Il segnale diplomatico non è rimasto isolato, ma è stato accompagnato da mosse di insolita evidenza aggressiva: la pirateria nei confronti delle navi israeliane (o considerate tali perché sono gestite da società in cui vi sono soci israeliani), l’accelerazione della raffinazione del combustibile nucleare, più di recente il lancio di una ventina di razzi dal Libano, rivendicati da Hezbollah. E’ evidente che questa aggressività è un segnale delle intenzioni degli ayatollah, e allo stesso tempo un test delle reazioni del mondo, in particolare dell’amministrazione Biden, che si è molto compromessa nel tentare un recupero dell’accordo nucleare con l’Iran e del nuovo, debole, governo israeliano. Nessuno sembra sapere che cosa fare nei confronti di un pirata con le armi atomiche, governato da un “macellaio”, come si avvia ad essere l’Iran. Gli ayatollah hanno l’abitudine di sfidare i loro nemici, di avanzare se non trovano risposta e di negare la loro responsabilità e di cambiare tattica se ne ricevono di decise. Per il momento non se ne sono avute. Speriamo solo che non ritorni l’epoca in cui per amor di “pace” si permise al terrorismo di compiere grandi stragi prima di reagire.