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    Niente elezioni: il caos palestinese è solo rimandato

    Le lezioni del Consiglio Legislativo Palestinese, l’organo parlamentare dell’Autorità Palestinese, che erano previste per il 22 maggio non si terranno. E così è rimandata a data da destinarsi l’elezione del Presidente dell’Autorità. La colpa, ha detto Mahmoud Abbas, sono di Israele che non ha consentito che si votasse a Gerusalemme. È una menzogna: Israele non ha affatto rifiutato di permettere le elezioni, innanzitutto perché non ha ricevuto nessuna richiesta ufficiale del genere. Semplicemente ha taciuto, non ha preso nessuna posizione. Ma il problema è più sostanziale. È perfettamente possibile far votare gli arabi di Gerusalemme che lo desiderano nei territori controllati dall’Autorità Palestinese: si tratta di un percorso bravissimo. Ma l’AP vuole istituire i suoi seggi proprio a Gerusalemme, perché ne rivendica la sovranità. Come ha detto Ahmad Majdalan, un’importante dirigente dell’organizzazione: “Gerusalemme non è una questione tecnica, ma simbolica” (https://www.timesofisrael.com/as-palestinians-plan-vote-jerusalem-looms-as-possible-obstacle-or-pretext/). E Israele non vuole dare segnali di rinuncia alla sua sovranità sulla capitale.

    Al di là di questi problemi formali, le elezioni in realtà sono state annullate perché tutte le previsioni  indicavano una durissima sconfitta di Abbas e una vittoria di Hamas. Il partito dell’attuale presidente, Fatah, si presenta diviso in tre parti: quella che resta leale a lui, quella che sostiene l’ex uomo forte di Gaza, Mohammed Dahlan, scappato negli Emirati dopo l’espulsione e le minacce giudiziarie, e quella del terrorista Marwan Barghouti, che sconta una condanna multipla all’ergastolo nelle carceri israeliana per gli omicidi che ha organizzato. Anche se fosse unito probabilmente Fatah perderebbe con Hamas, come accadde nelle ultime elezioni. Così spaccato, non ha speranze. D’altro canto le elezioni palestinesi, come quelle di tanti paesi arabi e del Terzo Mondo, non servono a organizzare il ricambio dei vertici politici, ma la loro conservazione. Mahmoud Abbas è stato eletto presidente il 15 gennaio del 2005, per un mandato di 4 anni. In America era presidente Bush, In Italia governava Berlusconi, in Francia Chirac, in Israele Sharon. Ma lui è ancora lì, senza aver mai affrontato nuove elezioni. E il consiglio legislativo palestinese, eletto il 25 gennaio 2006, mai rinnovato da allora, è stato sciolto nel 2007. Da quattordici anni Abbas governa per decreti, senza neppure la finzione di un’approvazione parlamentare o di un’elezione: nessun dittatore si è mai permesso qualcosa del genere, né Stalin, né Mao, né Castro e neppure Assad o Saddam Hussei hanno esercitato il potere in maniera così spudorata. Che accadrà ora? Probabilmente nulla. Abbas sa, al di là delle prediche democratica, di avere l’appoggio internazionale in questo suo arroccamento al potere. Perché se si facessero le elezioni e vincesse un’organizzazione apertamente e orgogliosamente terrorista come Hamas, tutta l’ipocrisia sulla Palestina si dissolverebbe e la guerra sarebbe inevitabile. E però il dittatore palestinese ha 85 anni, è notoriamente malato, non ha successori designati e neppure un meccanismo costituzionale per la sua sostituzione in caso di morte. Il caos palestinese è solo rimandato.

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