Con un lungo e commosso applauso, tutto il Parlamento europeo, in piedi, ha salutato il discorso della senatrice Liliana Segre, nella sessione plenaria dell’Assemblea questo pomeriggio a Bruxelles dedicata alle commemorazione del 75esimo anniversario della liberazione del lager nazista di Auschwitz. La senatrice ha detto, fra l’altro, di essere stanca di testimoniare gli orrori vissuti da bambina ad Auschwitz, ma di avere il dovere di continuare a farlo. La senatrice ha sottolineato che per lei il 27 gennaio 1945, quando i soldati russi entrarono nel lager più grande dell’Olocausto, non fu il giorno della liberazione. “Io avevo allora 13 anni ed ero operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union, che c’è tuttora. Noi facevamo bossoli per mitragliatrici. Di colpo in fabbrica, dopo che avevamo sentito scoppi lontani (… ) venne il comando immediato di cominciare quella che fu chiamata ‘la marcia della morte'”, ha ricordato. “Io facevo parte – ha continuato – di quei 50.000 prigionieri ancora in vita, che erano stati obbligati in quelle condizioni fisiche, senza parlare di quelle psichiche, a cominciare quella marcia che durò mesi, e di cui si parla pochissimo, dove non potevamo appoggiarci al compagno vicino che si trascinava sulla neve, con i piedi piagati come noi, e che veniva finito dalle guardie della scorta se fosse caduto…”.
“Noi non volevamo morire, noi eravamo pazzamente attaccati alla vita, qualunque fosse, per cui una gamba davanti all’altra, continuavamo a buttarci sui letamai, mangiare qualunque schifezza, qualunque cosa, mangiare la neve quando non era sporcata dal sangue e a non domandarci più nient’altro che andare avanti, camminare, camminare, camminare. Era il male altrui; le finestre erano chiuse”. “Traversammo all’inizio Polonia, Alta Slesia, poi fu Germania. E quando mesi dopo, dopo aver passato altri lager, altri orrori, altri mali, Ravensbrück, un Jugendlager che si chiamava così perché in effetti eravamo giovani; ma noi eravamo vecchie, senza sesso, senza età, senza seno, senza mestruazioni, senza mutande: non si deve aver paura delle parole, perché è così che si toglie la dignità a una donna, è così”. “Abituate a sopravvivere, perché c’era qualcosa dentro di noi che ci diceva: avanti avanti avanti; e giorno dopo giorno, campo dopo campo, io mi ritrovai alla fine di aprile 1945, pensate in quella situazione quanto era lontano il 27 gennaio, in che stato fisico, dopo la morte di compagne perdute in quella marcia, senza potersi alzare, non soccorse mai da nessuno; perché nessuno mai aprì una finestra, buttò un pezzo di pane, perché c’era la paura…”.
“Il razzismo strutturale – ha osservato poi Liliana Segre, dopo aver ricordato i tanti ebrei denunciati ai nazisti dai vicini di casa nei paesi occupati – c’è ancora. La gente mi domanda come mai c’è ancora l’antisemitismo? Perché c’è sempre stato”. Perché dipende dal “momento politico” la possibilità di “tirar fuori l’antisemitismo e il razzismo che sono insiti nell’animo dei poveri di spirito”. E poi “arrivano i momenti, i corsi e ricorsi storici; arrivano i momenti più adatti, in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile guardare altrove, nel proprio cortile, ‘è una cosa che non mi interessa, ma perché mi deve interessare, non mi riguarda’: e allora tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno adatto per farsi avanti”. “Quando, dopo la guerra – ha ricordato ancora la senatrice – tornai a Milano con le macerie ancora fumanti, incontrai le mie compagne di scuola della terza media, e queste compagne mi dissero: dove eri andata a finire? Io ero ferita, selvaggia, una ragazza che non sapeva più mangiare con forchetta e coltello; ero ancora abituata a mangiare come le bestie, ero bulimica, ero anche disgustosa, ero criticata anche da quelli che mi volevano bene, che volevano tornassi la ragazza borghese con la buona educazione familiare”.
“E’ difficile – ha sottolineato Liliana Segre – ricordare queste cose. Io da 30 anni parlo nelle scuole, e sento ormai una difficoltà psichica molto forte a continuare, anche se il mio dovere è questo, sarebbe questo fino alla morte; perché io ho visto questi colori, ho sentito quegli odori, ho sentito quelle urla, ho incontrato delle persone in quella babele di lingue, che oggi ricordo qui, dove tante lingue si incontrano in pace. Perché era possibile comunicare con le compagne che venivano da tutta l’Europa occupata dai nazisti solo trovando delle parole comuni, altrimenti era la solitudine assoluta del silenzio di non poter scambiare una parola…”. “Le bandiere colorate di tanti paesi fratelli qui fuori mi hanno fatto ricordare quel desiderio di trovare con le olandesi, con le francesi, con le polacche, con le tedesche, con le ungheresi, una parola comune. In ungherese avevo imparato una sola parola, ‘pane’…”. Ma, ha continuato la senatrice, “da tre anni almeno sento che i ricordi di quella ragazzina che sono stata, oggi che sono una vecchia di novant’anni, non mi danno pace; perché dacché sono diventata nonna 32 anni fa, e ora sono nonna di tre nipoti, ora che il Parlamento europeo e la mia non estinzione mi sembrano lo stesso miracolo… Quella ragazzina lì che ha fatto la marcia della morte, che ha brucato nei letamai, quella che non piangeva più, quella che cercava la parola comune, quella è un’altra da me”.
“Io sono la nonna di me stessa; sono una nonna amorosa, molto presente con i nipoti quando hanno un dispiacere, sono grata del fatto di essere anche nonna, miracolo eccezionale per una che doveva morire. Ma – ha ripetuto Liliana Segre – sono nonna anche di me stessa. Ed è una sensazione che a volte non mi abbandona, quando ho finito di parlare alle scuole, e spesso parlo a migliaia di ragazzi”. “E’ mio dovere di testimone parlare. E non posso che parlare di me, e delle mie compagne; ma salta fuori quella ragazzina, magra scheletrita, disperata, sola. E non la posso più sopportare. E sento che se non smetto di parlare, e se non mi ritiro, nel tempo che mi resta, a godere delle grandi gioie della mia famiglia ritrovata, non potrò più farlo”. “Anche oggi – ha continuato la senatrice – faccio fatica a ricordare; ma mi è sembrato un grande dovere accettare questo invito, per ricordare il male altrui, ma anche per ricordare che si può, una gamba davanti all’altra, essere come la bambina di Terezin”, una fortezza militare allora in Cecoslovacchia in cui fu trasformata in un campo di concentramento. “Chi va a Praga – ha spiegato – può visitare il museo dei bambini, che a Terezin potevano fare le recite e colorare con i pastelli, e che poi un giorno furono tutti deportati e uccisi ad Auschwitz per la colpa di essere nati. Fra loro c’era una bambina, di cui non ricordo il nome, che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati”.
“Io non avevo le matite colorate, e forse non avevo, non ho mai avuto, la fantasia meravigliosa della bambina di Terezin”, ma ha concluso Liliana Segre, “c’è un semplicissimo messaggio da nonna che io vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali: che siano in grado di fare la scelta, e con la loro responsabilità e la loro coscienza essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati”.