I protagonisti
E’ passata una settimana dall’accordo di ristabilimento delle relazioni diplomatiche fra Iran e Arabia Saudita e non vi è stata finora una sufficiente attenzione della stampa internazionale per questo evento, che pure è molto significativo. I due protagonisti sono infatti i più potenti stati musulmani del Medio Oriente. L’Iran ha circa 90 milioni di abitanti, un esercito forte, un progetto di armamento atomico quasi realizzato, grandi giacimenti di materie prime fra cui il petrolio, una popolazione avanzata e ben istruita, anche se protagonista di una resistenza accanita contro la dittatura degli ayatollah; e infine è il centro culturale e religioso dell’Islam sciita. L’Arabia ha circa 36 milioni di abitanti, i maggiori giacimenti petroliferi del mondo, una grande ricchezza accumulata. Con i luoghi santi della Mecca e di Medina esercita una grande influenza su tutto l’Islam, in particolare quello sunnita ed è al centro del sistema regionale di alleanze che si estende dall’Egitto agli Emirati, dalla Giordania al Sudan. L’Arabia è alleata tradizionale degli Stati Uniti, l’Iran è loro nemico dalla vittoria della rivoluzione di Khomeini nel 1978-79 e attualmente è legato alla Russia da un patto militare che ha permesso ai russi di rifornirsi di armi e soprattutto droni in cambio della fornitura di aerei avanzati SU35 all’Iran.
L’accordo
I due paesi, da decenni in disaccordo, avevano rotto le relazioni diplomatiche cinque anni fa, in seguito agli attacchi missilistici dei ribelli yemeniti Houthi, armati e diretti dall’Iran, contro campi petroliferi, aeroporti e perfino la capitale saudita. Ora hanno deciso di riaprire le rispettive ambasciate e probabilmente di tentare di collaborare sul piano finanziario e industriale. Non si tratta certamente di un’alleanza, ma della normalizzazione di una delle faglie di estrema tensione in Medio Oriente. Come ha sottolineato su Shalom Pietro Di Nepi, l’accordo è stato stretto con l’aiuto, anzi a quanto pare dopo una forte insistenza della Cina, che ha interessi nei due stati, è loro grande cliente per le forniture petrolifere e sta anche aprendo basi militari all’ingresso del Mar Rosso nell’ambito del suo sforzo di penetrazione in Africa. Il successo della Cina consiste soprattutto nell’aver mostrato di essere la potenza determinante nella regione, nonostante lo sforzo degli Stati Uniti, che risale ai tempi di Obama, di trovare un accordo con l’Iran, senza perdere del tutto il ruolo di protettore dell’Arabia. Di fatto le mosse americane dopo le due “guerre del golfo” sono state percepite nella regione come un ritiro progressivo, in qualche modo una sconfitta strategica: anche se restano truppe americane in diversi stati del Medio Oriente e vi sono alleati importanti, fra cui innanzitutto Israele, non sono più chiari gli obiettivi strategici americani nella regione, le forze impiegate diminuiscono e la garanzia sugli alleati è sempre meno credibile. E’ così che si è aperto lo spazio per la Cina, che è il vero avversario strategico degli Usa.
Il senso dell’accordo
In Medio Oriente qualcuno ha presentato l’accordo come se isolasse Israele e fosse dunque una vittoria dell’Iran. Non è così. Nella regione l’Arabia è il capofila degli stati che vogliono mantenere la calma geopolitica, l’Iran è il principale fomentatore di rivolte e il solo vero imperialista. Ha truppe in Libano, Siria, Iraq, Yemen e sostiene movimenti sovversivi in questi stati e anche negli Emirati, in Bahrein, a Gaza, in Giudea e Samaria e perfino in Arabia. Si è dato spesso esplicitamente lo scopo di abbattere i regimi sunniti filo-occidentali (e naturalmente di distruggere Israele) e ha incoraggiato i suoi satelliti Houthi ad attaccare l’Arabia dallo Yemen. Anche le navi petroliere provenienti dai porti arabi sono state spesso attaccate dalle “guardie rivoluzionarie” iraniane nel Golfo persico e nell’Oceano indiano: una serie di attacchi che hanno certamente danneggiato l’industria petrolifera saudita. L’accordo attuale implica certamente la sospensione, se non la rinuncia, a questi atti di ostilità, un ritorno alla calma che dev’essere stato stato garantito ai sauditi dalla Cina, la quale perderebbe la faccia se intervenissero ulteriori provocazioni iraniane. Dunque bisogna pensare che gli accordi limitino l’aggressività politica dell’Iran e garantiscano l’Arabia. Bisognerà vedere se l’estremismo che caratterizza la politica degli ayatollah permetterà che questi vincoli tengano; ma non risulta che l’Arabi abbia promesso nulla in cambio della calma.
E Israele?
Gli stessi osservatori che presentano l’accordo erroneamente come una vittoria dell’Iran tendono a sostenere che si tratta di una sconfitta per Israele e in particolare della fine degli accordi di Abramo. E’ improbabile che le cose stiano in questi termini. La diffidenza nei confronti dell’Iran, che è uno dei motivi (non il solo) degli accordi di Abramo, ha ragioni geopolitiche e di orientamento religioso che vanno ben al di là della ripresa delle relazioni diplomatiche. Fra Israele e gli Emirati vi è ormai una collaborazione economicamente importantissima, che potrebbe estendersi anche all’Arabia e all’Oman. E infatti, quasi in contemporanea con l’accordo, sono state rese note delle condizioni che l’Arabia Saudita ha chiesto agli Usa per entrare anch’essa nell’accordo con Israele. Si tratta di una garanzia di sicurezza, di vendita di armi ecc. Non si sa come l’amministrazione Biden, nemica della Cina ma alleata assai fredda di Israele, abbia risposto a questa apertura, ma certo il tema sul tavolo è l’estensione degli accordi, non la loro chiusura. Israele peraltro non ha la dimensione né la vocazione per garantire la sicurezza dell’Arabia. E però altre voci dicono che potrebbe essere prossima un’azione militare di Israele con l’appoggio degli Usa per evitare che l’Iran attivi l’armamento nucleare cui ormai è vicinissimo. In questo caso l’atteggiamento dei paesi arabi del Golfo sarebbe probabilmente di condanna verbale ma magari di appoggio logistico alla distruzione delle forze più pericolose del nemico tradizionale. Ma su questo nessuno salvo i protagonisti può nutrire certezze.