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    In Israele con la scimmia Chicca

    Nella mia infanzia, ricordo quel periodo come fosse ieri. Avevo sogni agitati e di giorno notavo cose strane, mostravo alla mia tata tripolina una pianta cresciuta in una notte in terrazzo o un paio di scarpe riposte in modo scomposto. Lei mi rassicurava che gli oggetti, anche se inanimati, hanno un loro modo di predire il futuro e mi pronosticava un lungo viaggio. Non saprò mai se avesse veramente le capacità di veggente o sapesse, a mia insaputa, che papà stava organizzando le vacanze, ma ricordo i salti di gioia miei e dei miei fratelli quando i nostri genitori ci annunciarono che saremmo partiti  in Israele per i due mesi estivi.

    I preparativi per il viaggio sembrarono lo spostamento del circo Barnum, una marea di valigie si riempirono per le necessità di mamma, papà, quattro figli, nonna e la scimmietta Chicca. Scendemmo dall’aereo ed entrammo nella hall dell’aeroporto di Tel Aviv che portava ancora i segni dell’attentato di un gruppo terroristico giapponese. L’aria festante dei vacanzieri strideva nel luogo dove qualche mese prima, purtroppo, erano morte delle persone. Appena usciti dallo scalo, la prima cosa che mi colpì fu il vento caldo, le case dall’architettura essenziale prevalentemente di color beige e le macchine, in maggioranza furgoncini con strane veneziane di plastica al posto dei teloni per coprire i cassoni posteriori dove si trasportano le merci. Mio zio, il fratello di mamma ci venne a prendere all’aeroporto con uno di questi.

    Mio padre, per stare più tempo possibile insieme ai nostri parenti, aveva affittato una casa nello stesso immobile dello zio. Lui viveva a Bat Yam in un palazzo con la vista sul mare e lì ho conosciuto i miei quattro cugini israeliani che erano nostri coetanei.

    Dopo i primi timidi sorrisi e i saluti, ci accorgemmo che non sapevamo come comunicare, noi parlavamo l’italiano e loro l’ebraico, mentre i nostri genitori conversavano in francese. Come per incanto e senza nessuno sforzo ma con un po’ di stupore, iniziarono ad uscirci di bocca frasi in quell’idioma e comprendevamo tutto senza fatica. Era la prima volta che parlavo il francese in vita mia.

    Da quel momento iniziò l’avventura, mio zio era una persona speciale, sembrava un po’ un capo scout e un po’ Archimede Pitagorico di Walt Disney. Lo zio ci portò a Tel Aviv al mercato del Carmel a comprare l’occorrente per fare campeggio: le tende, i sacchi a pelo, le lampade a gas, il necessario per accendere il fuoco e i famosi coltellini svizzeri che avevano inglobati anche la forchetta e il cucchiaio. Non c’era giorno che non si facesse qualche cosa e lo zio era deciso a farci conoscere tutta Israele che all’epoca era molto più vasta di adesso. Comprendeva le terre conquistate tre anni prima con la guerra dei sei giorni, compresa la città vecchia di Gerusalemme e il deserto del Sinai. La situazione politica si era normalizzata e si poteva andare ed entrare dappertutto tranquillamente. Ciò voleva dire che per noi ragazzini, ormai una banda collaudata tra cugini, non c’erano limiti alle esplorazioni.

    Purtroppo, Israele di quei tempi non c’è più, quello che facemmo da piccoli è inimmaginabile adesso. A Gerusalemme, sul Monte del Tempio potevamo andare anche dentro alla moschea di Omar dalla cupola d’oro, costruita intorno alla cima del monte Moriah. La roccia, per la verità non altissima, seppi poi sacra per gli ebrei e i mussulmani, fu da noi scalata ripetutamente, mentre per gioco ci nascondevamo nella piccola grotta alla sua base. L’altra moschea con la cupola d’argento era più vasta e se non fosse stato per i morbidi tappeti rossi e l’assenza di immagini, non si sarebbe detto luogo di culto islamico perché assomigliava ad una chiesa. Su un’enorme colonna di marmo bianco, c’è ancora una scalfittura di uno dei proiettili che uccise il vecchio re di Giordania e noi imitavamo l’attentato buttandoci a terra. Ma Gerusalemme era anche il Suk, il mercato arabo al coperto dalle mille botteghe, fu lì che acquistai una carovana di cammelli in miniatura scolpita nel legno d’ulivo che entrò a far parte dei miei strani giocattoli di Roma insieme alle statuette africane.

    Spesso nelle nostre escursioni ci portavamo anche la scimmietta, rimase memorabile quella in riva al lago Kineret. Dopo una giornata passata al confine fra Israele e il Libano, fra grotte e terrazze sul mare, lo zio aveva deciso di pernottare sulla riva del lago in un posto bellissimo. Montammo le tende su un prato che declinava verso una minuscola spiaggetta di brecciolino scuro e l’acqua verde. Ci facemmo subito il bagno, fra schiamazzi e gavettoni, il divertimento più grande era vedere Chicca nuotare, arrampicarsi fino alle nostre teste e poi tuffarsi. Ormai sfiniti dalle emozioni del giorno, mentre il sole svaniva, tutto diventava più quieto. Accendemmo il fuoco e iniziammo a cucinare mentre guardavamo il paesaggio notturno di una bellezza infinita. Tiberiade sembrava una città antica: le sue mille luci, il cielo e le stelle si rispecchiavano nel lago. Le tende erano avvolte dall’oscurità ed erano illuminate solo al loro interno dalle lampade a gas. Il falò si spense piano piano con il nostro chiacchiericcio. Giunse l’ora di andare a dormire e attaccammo ad un albero un lunghissimo guinzaglio per permettere a Chicca di salirci agevolmente. Alle prime luci dell’alba, ci alzammo per vedere il paesaggio e trovammo Chicca sull’albero spoglio. Durante la notte, aveva strappato tutte le foglie una ad una gettandole a terra.

    In quei due mesi d’estate, lo zio ci fece visitare tutta Israele, da Rosh Anicra ad Eilat sul Mar Rosso con la barriera corallina. Il deserto del Sinai con le rocce dalle mille sfumature dei rossi, l’oasi di acqua cristallina di Ein Ghedi. Beitlehem e Acco. Le piscine naturali di Banias. Salimmo a piedi nel caldo torrido a Massada e ci fece provare l’esperienza di fare il bagno nel Mar Morto con una pietra sulla pancia senza affondare. Ma ci divertimmo come matti anche a casa, a Bat Yam, piena di turisti che provenivano da tutto il mondo. Allora le spiagge di Tel Aviv non erano molto apprezzate, mentre quel lungomare era magnifico, caratterizzato dal susseguirsi di

    caffè e locali con la musica a tutto volume di giorno e di notte.

    Le vacanze arrivarono al termine, ma prima di partire dovemmo far riparare i danni causati da Chicca. Tenuta per tutta l’estate in una lavanderia ricavata su un balcone, aveva lasciato le impronte delle sue quattro mani su ogni centimetro quadrato delle pareti. Feci notare che la scimmia, involontariamente, aveva creando un’opera d’arte pop bellissima, ma i miei zii non apprezzarono.

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