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    Il tricolore a Tripoli

    Per un ragazzino, le istituzioni sono qualcosa di molto astratto e i grandi cercano di farle capire coi simboli. Per esempio, la mattina a scuola a Tripoli si faceva l’alza bandiera con due drappi, il nostro quello italiano, e uno simile con delle strisce orizzontali di colore verde, rosso e nero con al centro la mezza luna e la stella sormontata da una corona bianca. Non si cantava l’inno di Mameli ma quello della Libia “Ya bilabi, ya bilabi”, mio paese, mio paese…

     

    Mia Libia, così iniziava, ma tanto nostra quella Libia non doveva essere se dopo più di duemila anni in venti giorni ci hanno buttato fuori. Ero piccolo e poco conoscevo la storia di quando gli italiani governavano il paese e lo costruivano. Sapevo che potevo parlare la mia lingua con tutti e tutti mi capivano, quando papà ci portava dal medico, a fare i vaccini o si andava al comune per richiedere un certificato o un documento erano scritti in arabo e italiano. Nei bar, nei negozi, al mare e ai giardini si parlava l’italiano mentre nei vicoli e al mercato si sentiva in prevalenza l’arabo. Le vie, le piazze, i palazzi pubblici erano tutte imbandierate col vessillo libico e non c’era ufficio istituzionale o privato che non avesse incorniciata la foto di un nobile vecchio che indossava un baraccano bianco e portava occhiali tondi con montatura nera. Noi sapevamo che lui era il re, era il nostro re, che era amico degli ebrei e della nostra famiglia e che amava l’Italia. Ma nel momento del bisogno e del pericolo lui non c’è stato. Forse gli abbiamo dato delle colpe che non aveva perché era ormai ottantenne e privo di forze, i suoi parenti, i principi Senussi, si sono lasciati influenzare da idee rivoluzionarie che li hanno portati alla rovina.

     

    Da quella nobile famiglia andavo con mia zia a trovare una signora anziana, seppi a posteriori che era la moglie del re. Viveva in un bel palazzo bianco con grandi cupole che abbagliavano alla luce del sole, mentre all’intero gli ambienti erano in penombra a causa delle musharabie, grate di listelli di legno modellate a rombi e dipinte di verde. Nella grande sala ricoperta da enormi e morbidi tappeti persiani, mia zia seduta su una poltroncina e la vecchia signora araba sui morbidi cuscini conversavano amabilmente per ore mentre io sdraiato a terra, giocavo con la fantasia facendo scorrere il dito sugli intricati disegni di fiori e tralci stilizzati.

    Questo tempo lento e dilatato è finito di colpo e ci siamo ritrovati in una grande città molto più dinamica. La prima cosa che mi ha colpito era la mancanza totale di vessilli, all’epoca i palazzi istituzionali avevano le aste spoglie, anche i ministeri e il Vittoriano ne erano privi e ciò dava alla città un’aria mesta e triste, nelle scuole non veniva fatto nessun alza bandiera prima dell’inizio delle lezioni. Ma al culmine della primavera, quando il cielo diventava azzurro come solo Roma sa offrire e il caldo diventava estivo, la città si svegliava imbandierata di verde, bianco e rosso che sono fra le tinte più gioiose e allegre della tavolozza dei colori. E da quel momento iniziavano l’estate e le vacanze.

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