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    Il terrorismo, la nuova forma di persecuzione antisemita

    L’Italia intera deve ringraziare Gadiel Gaj Taché per aver avuto la forza e la determinazione di raccontare le sue vicissitudini e quelle della sua famiglia, della valorosa mamma Daniela e di suo padre Joseph. È un’esperienza di valore universale: chi ha la ventura di essere investito dal terrorismo diventa la preda di uno tsunami fisico ed emotivo senza ritorno, i suoi dolori psicologici e fisici sono disconosciuti quanto il fenomeno del terrore e a tutt’oggi lontano dall’essere pienamente compreso, definito, affrontato. Nell’ultima settimana, Israele ha subito 17 attacchi terroristici, solo le vittime conoscono il trauma dell’aggressione ingiusta che hanno dovuto sopportare, lo strazio familiare, le cure fisiche crudeli; quando durante la seconda Intifada ho visto le strade di Gerusalemme letteralmente coperte di sangue con circa duemila morti, paradossalmente sono stati assolti e perfino esaltati gli aggressori, annoverati fra gli oppressi del mondo, mentre le vittime venivano disconosciute e Israele e gli ebrei venivano chiamati oppressori. Il racconto dell’esperienza personale di Gadiel nel suo libro “Il silenzio che urla”, così come la sua ricostruzione dell’orrida, intricata vicenda politica

    che ha permesso l’assassinio del piccolo Stefano e il ferimento di 37 ebrei usciti dalla preghiera, getta luce sulla reale natura del terrorismo antisemita, su come viene usato contro gli ebrei nel mondo, sulla incredibile sofferenza che esso procura. 

    Dalle pagine di Gadiel si capisce senza ombra di dubbio che la persecuzione terrorista è l’ennesima reincarnazione storica dello stragismo antisemita, dopo i roghi, le espulsioni, la discriminazione sociale e politica, e infine la Shoah, nei confronti degli ebrei. L’antisemitismo oggi usa l’omicidio politico e teoretico, la diffamazione sui media e nei campus, sui media e nei social network da una parte, e l’agguato fisico agli innocenti ebrei in tutto il mondo dall’altra. Il suo picco è in Israele, a Gerusalemme, a Tel Aviv, dove sugli autobus, sulle autostrade, nei ristoranti, nelle pizzerie, chiunque può essere preda della furia delle armi da fuoco, dei coltelli, dell’assalto con l’auto; il ritmo è frenetico, le vittime migliaia, non c’è famiglia che non abbia un parente o un amico che sia stata vittima del terrore; e non vi luogo nel mondo, da Monaco al tempo delle Olimpiadi nel ‘72, a Parigi, a Madrid, a Londra, a Tolosa, nei Paesi Bassi, a New York, in tante città americane ma anche a Mombai, in Kenia, e certo, a Roma anche prima dell’attacco del 9 di ottobre con la strage di Fiumicino, che non abbia conosciuto l’aggressione a sinagoghe, a linee aeree israeliane o che trasportavano passeggeri in partenza o in volo per Tel Aviv, omicidi nei negozi, supermarket, scuole di ebrei; che non abbia visto attacchi mortali a ragazzi ebrei come Ilan Chalimi (2006) o ad anziani come Mireille Knoll (2018). Questa pandemia, che ebbe il suo apice universale nell’11 di settembre, mai è stata definita fino in fondo nel suo poderoso aspetto antisemita, che pure i terroristi non mancano di articolare a piena voce ogni volta, come a Roma. Gli episodi sono decine di migliaia, sempre, da allora quando la CGIL lascio una bara davanti alla Tempio, accompagnati alla criminalizzazione di Israele, da urla di “morte agli ebrei” che sempre fanno il paio con “dal fiume al mare la Palestina sarà libera”. Ovvero, che oggi hanno uno scopo come ebbero nel passato quello della distruzione del popolo ebraico: il disegno della distruzione dell’unico stato ebraico del mondo, dell’unica democrazia del Medio Oriente. 

    Nel periodo dell’attacco alla sinagoga e del cosiddetto lodo Moro, di cui si parla ampiamente in altre parti del libro, lo sfondo della mostrificazione di Israele, la sua “nazificazione” come l’ha definita Robert Wistrich è spaventosa anche nell’opinione pubblica italiana, si va da un articolo di Valentino Parlato sul Manifesto, in cui egli paragonava Ariel Sharon a Kesserling e a Goering, a Lucio Lombardo Radice che scriveva che Israele stava attuando a Beirut la strategia nazista della liquidazione dei Ghetti. Arafat, armato, in visita in Italia parlò al parlamento, come ricorda Gadiel; scansato solo da Spadolini e da Pannella, stava allora definendo la strategia sanguinaria che porterà alla Seconda Intifada, in cui la formazione degli “shahid” e la cultura della loro santificazione diventava la strada parallela alle chiacchiere su una pace in realtà sempre rifiutata.

    Nella mia storia di giornalista, ho incontrato molti terroristi: ti accorgi che la loro educazione è complessa e inamovibile, che non ha niente a che fare con questioni territoriali, ma ha la gravitas dell’ideologia e della religione per cui lo shahid che uccide gli ebrei è una figura santificata. A scuola, a casa, sulle mura delle piazze e nelle colonie estive palestinesi si pavimenta la strada del rifiuto, dell’odio, del terrorismo. Come loro si vantano, “noi amiamo la morte quanto loro amano la vita”. È proprio così. Le madri che si rallegrano della morte dei loro figli shahid sono l’esatto contrario delle nostre madri, l’esatto contrario di Daniela che ha lottato accanto a Gadiel fin da quel giorno terribile, e oggi riporta a noi, viva, la memoria di Stefano, bambino di tutti noi.

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