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    NEWS

    Il discorso di Netanyahu al Congresso Usa

    Una prova difficile
    Con un grande discorso al Congresso americano riunito per ascoltarlo, Benjamin Netanyahu ha superato con successo una delle prove più difficili della sua lunga carriera politica. Era la quarta volta che Netanyahu parlava al Congresso, un record che nessun altro leader straniero ha uguagliato nella storia. Ma le circostanze erano particolarmente difficili. Metà dei democratici, a partire dalla vicepresidente Kamala Harris che per ufficio presiede il Senato, avevano annunciato la loro assenza, con pretesti vari o esplicitamente per boicottarlo. L’America è profondamente divisa in due fronti contrapposti su tutto e purtroppo anche sulla valutazione della guerra di autodifesa di Israele. L’annuncio di qualche giorno fa della rinuncia di Joe Biden a correre per le elezioni presidenziali ha completamente cambiato il quadro politico, vincolando ogni tema a una campagna elettorale estremamente polarizzata e polemica. Il compito di Netanyahu era di cercare di mostrare ai parlamentari e al popolo americano che il sostegno a Israele è essenziale e dev’essere condiviso da tutti. Ci è riuscito con un discorso di quasi un’ora, interrotto da grandi applausi in piedi quasi ad ogni frase.

    Il 7 ottobre
    Il punto di partenza dell’intervento è che la guerra fra Israele e Hamas “non è uno scontro di civiltà” (secondo la nota analisi di Samuel P. Huntington che un paio di decenni fa ha identificato i conflitti culturali come matrice della politica internazionale contemporanea), ma “uno scontro fra civiltà e barbarie”. Netanyahu ha paragonato il 7 ottobre all’attacco di Pearl Harbour e all’attentato alle Twin Towers (solo “20 volte più grande in rapporto alla popolazione”), ha riassunto i terribili eventi di quel giorno, ha presentato ai deputati Noa Argamani, la ragazza rapita e liberata dopo una lunga prigionia dall’intervento dell’esercito israeliano, e anche alcuni soldati che hanno compiuto in quel giorno atti di eroismo, ha polemizzato molto duramente coi manifestanti anti-israeliani (che “non conoscono la differenza fra bene e male e si schierano dalla parte degli assassini”). Ma ha evitato di polemizzare direttamente coi democratici che li sostengono o “comprendono il loro impulso morale”, come ha detto Kamala Harris di recente.

    Ringraziamenti
    Anzi il Primo Ministro israeliano non ha lesinato ringraziamenti al presidente Biden, ricordando la sua visita in Israele dieci giorni dopo il 7 ottobre, il suo autodefinirsi “sionista”, l’appoggio americano da lui deciso in occasione degli attacchi. Lo spirito “bipartisan” è stato rispettato quando poco dopo nel discorso Netanyahu ha citato Trump, non solo per esprimergli solidarietà per l’attentato di pochi giorni fa, ma anche per ringraziarlo di quel che ha fatto durante la sua presidenza: gli accordi di Abramo, lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan.

    L’Iran
    Il nucleo del ragionamento politico ha occupato la seconda parte del discorso. La guerra non è solo contro Hamas, ha detto Netanyahu, e neppure contro Hezbollah e gli Houti. Dietro a questi e agli altri gruppi terroristi c’è l’Iran. E l’obiettivo vero dell’Iran non è Israele ma gli Stati Uniti. L’Iran ha capito dalla “rivoluzione islamica” di Khomeini che deve innanzitutto distruggere Israele per unificare sotto il suo dominio tutto il Medio Oriente e poter usare il suo potere per combattere il sistema occidentale guidato dagli Usa e conquistare il mondo all’Islam. Dunque è l’Iran che va sconfitto. Per questo “quando noi combattiamo questa guerra, lo facciamo per noi, ma anche per voi, la nostra guerra è anche la vostra guerra, la nostra vittoria sarà anche la vostra vittoria”. Noi combattiamo, i nostri soldati sono eroici. Ma abbiamo bisogno dell’appoggio dell’America: devo ripetere quel che ottant’anni fa ha detto Churchill: dateci gli strumenti necessari, cioè le armi e noi ci difenderemo e vinceremo anche per voi.

    Visioni per il dopoguerra
    Dopo aver difeso l’azione dell’esercito israeliano dalle accuse false e infamanti di genocidio a Gaza (perché “è Hamas che usa i civili come scudi umani, che spara da ospedali, scuole, moschee”, mentre Israele si sforza in tutti i modi di evitare i danni ai civili), Netanyahu ha esposto per la prima volta in modo chiaro la sua prospettiva per il dopoguerra. Israele non vuole governare Gaza, ma deve avervi libertà di movimento militare per impedire il ritorno del terrorismo; vi sarà un’amministrazione civile composta da palestinesi non coinvolti con il terrorismo. Sul piano geopolitico più vasto del Medio Oriente, il primo ministro israeliano ha proposto la costituzione di un’ “alleanza di Abramo”, composta da tutti i paesi amici di Israele (o che facciano la pace con esso) e dell’America: come dopo la seconda guerra mondiale l’America costituì la Nato per sconfiggere l’imperialismo sovietico, così bisogna fare ora in Medio Oriente.

    “Vi prometto che vinceremo”
    Tutta il discorso è stato punteggiato dall’impegno fondamentale di Netanyahu: “vi prometto che vinceremo, sconfiggeremo Hamas e libereremo i rapiti, non avrò riposo fino a che non li avrò riportati a casa. La conclusione del discorso è stato il riconoscimento degli Stati Uniti come garanzia della libertà in tutto il mondo, l’appello a “democratici e repubblicani” a continuare ad appoggiare Israele, l’espressione della gratitudine dello stato ebraico al suo grande alleato, La promessa di fedeltà, la convinzione che “quando stiamo assieme, vinciamo contro tutti i nemici della civiltà”. Un grande discorso, il migliore che si potesse fare in queste circostanze, con l’obiettivo di toccare il cuore dell’America più vera e profonda. Oggi Netanyahu vedrà Biden e domani Trump.

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