Questo 27 gennaio 2024, così doloroso a causa del ritorno del terrorismo contro Israele e contro gli ebrei, della guerra in Medio Oriente con le sue vittime e della nuova ondata di antisemitismo che travolge anche la memoria della Shoah, sento di dovermi porre un’unica domanda: dove abbiamo sbagliato?
A quasi 24 anni dall’approvazione dalla Legge della Memoria in Italia, dopo decenni di lavoro internazionale e nazionale per capire la Shoah e spiegarla agli altri, per rompere il muro dell’indifferenza ed aprire squarci di responsabilizzazione, individuale e collettiva, cosa abbiamo sbagliato? Perché i nostri sforzi per tramandare correttamente la memoria di uno dei delitti contro l’umanità più crudeli, vergognosi e di vaste proporzioni di tutta la Storia non sono riusciti ad arginare l’attuale sfogo di odio contro gli ebrei? E quali sono le implicazioni di quanto sta succedendo come conseguenza dell’attacco terroristico di Hamas a Israele il 7 ottobre scorso, sulla memoria della Shoah? Inevitabile riflettere su questo.
Come ha detto Deborah Lipstadt, la donna che ha dedicato una vita a combattere il negazionismo ed ora è l’inviata speciale del presidente americano Biden per il contrasto all’antisemitismo, “preoccupa terribilmente quanto sia veloce oggi riscrivere la storia”, in altre parole, distorcerla. Sono anni che le organizzazioni nate per tramandare correttamente la Shoah combattono contro il negazionismo e la distorsione. Cosa non abbiamo visto? Di cosa non ci siamo sufficientemente occupati?
Dani Dayan, presidente dello Yad Vashem di Gerusalemme, ha detto più volte dopo l’attacco di Hamas a Israele: “Nonostante le sue numerose e inquietanti similitudini, il massacro di ebrei innocenti nel Sud di Israele non è di certo la continuazione della Shoah… ci sono importanti differenze…. ma anche senza equiparare le atrocità perpetrate da Hamas a quelle perpetrate dai nazisti, quello che è successo pone una sfida ancora più impellente all’umanità e ai leader del mondo… Abbiamo capito in questi mesi che ribadire “mai più” non serve, non è servito.. bisogna agire”. Come? Cosa non abbiamo visto in ciò che abbiamo fatto fino ad oggi? Di cosa non ci siamo sufficientemente occupati? O cosa abbiamo trattato in modo errato?
Il primo passo è certamente quello di formulare le domande giuste. Tuttavia provo in questa sede anche ad avanzare qualche risposta, che scrivo esclusivamente a titolo personale, pur lavorando ormai da anni in seno all’IHRA, l’alleanza internazionale nata per tramandare in modo corretto la Shoah, che raccoglie ormai i governi di 35 paesi. Molte di queste domande hanno comunque segnato sia l’apertura che la chiusura dell’ultima plenaria IHRA a Zagabria, lo scorso novembre.
Uno degli errori, a mio parere, è stato quello di isolare la Shoah da un più ampio contesto storico, ovvero di parlare solo di quello che è accaduto agli ebrei tra il 1933 e il 1945, senza offrire una conoscenza di base sulla storia e sulla cultura ebraica. Dalla fine della seconda guerra mondiale, quando la liberazione di Auschwitz non aveva ancora assunto un valore così paradigmatico e simbolico, fino alla fine degli anni ’80 – incluso il momento topico del processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961, che sicuramente segnò una svolta per l’interesse pubblico e soprattutto la forza delle testimonianze – la memoria della Shoah fu costruita soprattutto attorno al prisma ideologico dell’antifascismo. E si capisce che la prima spinta fu quella di ricostruire la micidiale macchina di sterminio messa a punto dai nazisti. In tutto quel periodo gli ebrei furono trattati esclusivamente da vittime di un progetto del male, enfatizzando i numeri e non i nomi, i meccanismi barbarici della loro uccisione più che le loro storie di vita. Anzi di vita non si parlò quasi mai. L’accento fu tutto sulla morte. L’immagine stereotipata restò quella degli ebrei come “pecore al macello”.
Alla fine degli anni ’80, mentre si costruivano, soprattutto in Germania, i primi memoriali più significativi, questo paradigma è stato sostituito da una lettura più legata agli ebrei che ai nazisti, ma ancora del tutto vittimologica, nata anche attorno alla prima raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti, i quali non parlavano affatto solo da vittime, ma come tali erano purtroppo ascoltati e categorizzati. Si continuò così a parlare di ebrei come vittime passive, non mettendo alcun accento sulla loro resilienza, sulle loro storie di vita e sulla loro resistenza. Di resistenza si parlò solo in relazione ai tentativi armati di resistere in alcuni ghetti, a partire da quello di Varsavia, poi raso al suolo dai nazisti nell’aprile del ’43. La resistenza senza armi non era considerata ancora resistenza. La resistenza per nascondersi, per aiutare la famiglia, per far vivere un famigliare o un amico prima di essere ucciso, non era ancora resistenza. Erano episodi invisibili. Come se nella Shoah non ci fosse vita, non ci fossero valori ebraici, non ci fosse lotta di sopravvivenza, come se non restasse altro che la rassegnazione. Anche questa immagine era sbagliata, ma passò alla storia ed entrò nella coscienza collettiva europea.
In modo parallelo la memoria della Shoah portava, è vero, ad un processo di riconoscimento delle proprie responsabilità da parte di alcune società europee, con uno sguardo al proprio passato per produrre una nuova coscienza civile al presente. Alcuni Paesi hanno attraversato questo processo in modo più profondo, altri forse meno. Ma gli ebrei restavano capri espiatori, e oggetto di una larga retorica tutta incentrata sul male che avevano subito. In alcuni paesi, va detto ed è rilevante oggi, la riflessione sullo sterminio degli ebrei ha condotto perfino ad una sensibilità più ampia in relazione alle minoranze e ai vari modelli di inclusione ed esclusione di esse dalla società. Come sappiamo, la discussione su quello che era successo agli ebrei durante la seconda guerra mondiale (ovvero essere vittime), sull’antisemitismo (sempre in chiave di vittimologia ebraica e non di fenomeno indicatore di un male più ampio) e sul razzismo, ancora oggi continua a segnare il rapporto tra maggioranza e minoranze, e non solo sul suolo europeo. Ma dov’è stato il cortocircuito?
Involontariamente – o forse no – lo studio della Shoah ha promulgato un’immagine dell’ebraismo simbolo di un corpo sacrificale, di una collettività nata per essere tale, e dunque strutturalmente incapace a difendersi dalle persecuzioni, o peggio che non può difendersi dall’essere discriminata e attaccata. Una collettività su cui piangere, sulla quale costruire narrative vittimologiche anche calzanti per altri gruppi, ma non da difendere nel suo legittimo diritto alla vita e alla promozione dei propri valori esistenziali, individuali e collettivi.
Una lezione amara. Non abbiamo sbagliato ad emanare leggi sulla Memoria, a insegnarla nelle scuole, a trasmetterla agli ignoranti e agli indifferenti. Abbiamo sbagliato nello scollegare la memoria dalla vita, dai valori, dal senso di giustizia insito anche nella resistenza e nella difesa. Abbiamo sbagliato ad accettare una retorica vuota, a costruire monumenti che evocano solo la morte, a lasciare che il concetto di vittima fosse usato e abusato, senza conoscenza di un quadro più ampio, di una storia più larga, di una cultura più antica e di valori basati sulla giustizia, sulla azione, sulla solidarietà e sulla Vita.
Simonetta Della Seta
Chair Gruppo di Lavoro Memoriali e Musei
Alleanza Internazionale per la Memoria della Shoah (IHRA)