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    Dopo la visita di Biden in Medio Oriente, i vecchi giochi riprendono

    Terminato il viaggio di Biden

     

    Si è conclusa ieri la visita di Biden in Medio Oriente, prima a Gerusalemme, poi a Ramallah, infine a Jeddah, dove ha sia incontrato i governanti sauditi, sia ha partecipato a una conferenza di stati arabi filo-occidentali, fra cui Egitto, Giordania, Emirati. L’aereo del presidente, l’ Air Force One, è decollato dall’Arabia Saudita dopo una catena assai fitta di eventi formali, colloqui, incontri, manifestazioni pubbliche, che si sono svolte in maniera regolare, senza le proverbiali gaffes di Biden, che solo è apparso disorientato in un paio di occasioni, e soprattutto senza incidenti. Perfino Hamas ha manifestato la sua esistenza nel solito modo terroristico, sparando i suoi razzi sul territorio israeliano, solo dopo la partenza di Biden dall’aeroporto Ben Gurion.

     

    Un successo di immagine

     

    Biden ha avuto un ovvio successo fra i suoi interlocutori. Anche se certamente segnato dall’età, è un uomo gradevole con enorme esperienza del mondo e anche del Medio Oriente. I suoi primi incontri nella regione risalgono ai tempi di Golda Meir e di Nasser. E ovviamente è il presidente degli Stati Uniti, che tutti cercano di compiacere e di farsi amico, se proprio non sono la Russia, l’Iran, la Corea del Nord. Per quel che conta oggi, Biden può tornare a Washington vantandosi di aver ristabilito personalmente la presenza americana in una delle regioni più strategiche del mondo, anche grazie alla sua relazione personale coi leader.

     

    Le buone parole per tutti

     

    Volendo piacere, il presidente americano ha detto a tutti quello che volevano sentirsi dire: a Israele (con una pomposa “Dichiarazione di Gerusalemme”) che non lascerà l’Iran diventare potenza nucleare e che il rapporto fra Usa e Israele è strettissimo e durerà per sempre. Ad Abbas che è per lo stato palestinese, anzi per la convivenza di due stati secondo quello che loro chiamano “confini del 1967”, ma che in realtà sono le linee armistiziali del ‘48-49, con scambi condivisi di territorio (ma sembra che su questo tema dei due stati abbia trovato anche l’eco di Yair Lapid, per quel che vale la parola di un primo ministro provvisorio). Ai sauditi ha parlato cordialmente, il che è già un riconoscimento dopo aver minacciato di trattarli da paria in seguito al caso Kashoggi, e addirittura ha dichiarato che il rapporto con gli Usa è una “partnership strategica”, aggiungendo anche quello che aveva già detto a Israele, cioè che l’Iran non avrà l’atomica. Agli stati arabi riuniti ha detto che l’America non ha affatto voglia di andarsene dal Medio Oriente, che possono far conto su di essa; cioè che non li lascerà diventare satelliti dell’Iran. Ai nemici di Israele e dell’Arabia in America ha detto di aver sollevato il caso dei diritti umani e dello stato di Palestina.

     

    Le contraddizioni

     

    Ma la promessa per uno è la delusione per l’altro. Ad esempio, per i palestinesi è una provocazione il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e dell’amicizia fra Usa e stato ebraico; per gli israeliani il fatto che Biden abbia tolto la bandierina israeliana dal frontale della sua macchina per far visita a un ospedale arabo nella città di Gerusalemme è sembrato un tradimento e a molti non è piaciuto l’irrealistico discorso dei due stati. Soprattutto nella “Dichiarazione di Gerusalemme” e in quella con l’Arabia Biden non ha voluto dare garanzie concrete sul rapporto con il nemico di tutti gli stati che ha visitato, cioè l’Iran. Ne ha parlato certamente con tutti e ha promesso che l’Iran non avrà l’arma atomica fino a che lui sarà presidente; ma si è rifiutato di prendere impegni sul solo modo realistico per bloccare questo pericoloso sviluppo, cioè la minaccia dell’uso della forza. Anzi ha ripetutamente spiegato di preferire la “via diplomatica” a quella militare, intendendo con questo il rilancio del trattato di Obama, che tutti giudicano un fallimento. E questo è sembrato troppo poco a tutti i suoi interlocutori, senza ovviamente dare soddisfazione all’Iran che lo considera comunque un nemico.

     

    Le radici delle difficoltà

     

    Questi problemi non derivano dalla scarsa lucidità personale di Biden, sono il frutto di un atteggiamento ben stabilito della sua amministrazione, che cerca sistematicamente di conciliare l’inconciliabile: l’amicizia per Israele e quella per i palestinesi, l’appoggio ai paesi che vogliono conservare l’assetto filo-occidentale del Medio Oriente e la volontà di fare la pace con l’Iran, anche a condizioni economiche e politiche molto dispendiose, il rifiuto dell’antisemitismo e il finanziamento dell’UNRWA… Volendo risultati incompatibili, l’amministrazione Biden agisce in maniera confusa: fa un gesto e poi subito lo contraddice, appoggia una parte nel conflitto e poi subito esprime amicizia all’altra. E’ un atteggiamento che si vede bene anche nella guerra in Ucraina, dove Biden appoggia gli aggrediti, ma non tanto da permettere loro di vincere. Un colpo al cerchio e uno alla botte.

     

    E poi?

     

    Adesso il Medio Oriente riparte dal punto in cui era prima della visita presidenziale: Hamas cerca di affermare la propria esistenza con scoppi di violenza, Israele si difende dall’Iran ma non ha la dimensione sufficiente per fermare del tutto i suoi attacchi, il processo dei “patti di Abramo” prosegue con sviluppi importanti, come l’apertura dello spazio aereo saudita, ma certo troppo lentamente per una situazione di emergenza, l’Autorità Palestinese coltiva il rancore dei perdenti e si occupa soprattutto di chi sostituirà prima o poi il vecchio Abbas, non certo perché costui intenda mettere in palio il suo posto in libere elezioni, ma perché prima o poi la morte vincerà anche la sua inerzia. La politica israeliana è l’esatto opposto, tutta immersa nelle fibrillazioni della quinta campagna elettorale in meno di quattro anni, ma anche questa coazione a ripetere non è un buon segno, come dicono tutti i politici e commentatori. Insomma i vecchi giochi continuano, Biden non ha risolto nulla e probabilmente neanche lo sperava, oggi è già di nuovo a Washington a occuparsi di un’economia affetta da un’inflazione preoccupante, di una politica sempre più divaricata, del braccio di ferro con la Russia e soprattutto della minaccia immobile ma incombente della Cina. Ma almeno questa, deve aver pensato, è fatta.

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