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    Addio a Daniele Segre: il suo cinema è luce sulla realtà

    In questi ultimi vent’anni mi era capitato molte volte di intervistare Daniele Segre, scomparso il 4 febbraio scorso, all’età di 71 anni. La prima volta è stato per quel che considero il suo capolavoro ossia “Manila Paloma Blanca”, una pellicola di finzione su un ex attore, la cui vita viene avvolta da una dolce follia. Film di finzione, abbiamo detto, ma che conteneva tutti quegli elementi documentaristici – perché Daniele Segre era prima di tutto un grande documentarista – che hanno reso importante il suo cinema.
    Cinema pervaso da una forte spiritualità, probabilmente ereditata dalla sua famiglia ebraica osservante – suo nonno, infatti, era rabbino della Comunità ebraica di Alessandria – e che ha portato prima sugli schermi, quando il suo cinema riusciva a trovare distribuzione, e più tardi anche sui palcoscenici italiani.
    Cinema scomodo il suo, mai veramente celebrato come avrebbe dovuto. “Daniele non ha problemi con i premi, lo ha semmai col mercato. Raramente ho visto in vita mia qualcuno così estraneo alla logica e alle lusinghe commerciali” scriveva Luciana Castellina, a cui Segre ha dedicato un documentario dal titolo “Luciana Castellina, comunista” nel 2012.
    Erano i temi che affrontava Segre che non piacevano o non interessavano alle distribuzioni: temi come la follia, non per forza come patologia, come testimonia il già citato “Manila Paloma Blanca”, oppure il dramma degli esclusi che è stato esaminato in una pellicola come “Ritratto di un piccolo spacciatore” del 1982 e nel suo meraviglioso “Vecchie” interpretato da due grandi attrici come Barbara Valmorin e Maria Grazia Grassini. Ma anche le sue inchieste come “Perché droga?” sull’eroina del 1976 oppure il successivo “Il potere deve essere bianconero” sul tifo calcistico tema che ritrova sia nel “Ragazzi di stadio” del 1980 e, più tardi, “Ragazzi di stadio – Quarant’anni dopo” del 2017. Daniele Segre ha raccontato in maniera stimolante l’orgoglio delle donne partigiane (“Nome di battaglia Donna”, 2016) e fu tra i primi a condurre inchieste sulle morti bianche (“Morire di lavoro”, 2008). Il mondo del lavoro era (molto) spesso al centro del suo cinema come “Dinamite – Nuraxi Figus Italia” del 1994, con cui ha lanciato un grido di dolore per una civiltà, quella mineraria, al tramonto. Insomma, pezzi di cultura e di economia in frantumi. Senza dimenticare i due reportage, prodotti da Rai uno, e dedicati a due big della show business come Liza Minelli e Frank Sinatra sulle loro tournée del 1987 in Italia con la fotografia di Luca Bigazzi. Titoli? Semplicemente “Dall’Italia con amore, Frank Sinatra” e “Dall’Italia con amore, Liza Minelli”.
    Autore poliedrico Daniele Segre: è stato anche sceneggiatore, montatore, scenografo e produttore con la sua società “Cammelli” fondata nel 1981, è stato docente di Cinema della realtà al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e direttore didattico del corso di reportage della sede Abruzzo del Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola Nazionale di Cinema. Amava l’idea della rappresentazione come pochi in Italia ed ecco che tra i suoi ultimi lavori troviamo una pellicola dal titolo “Un tempo un incontro”, dedicato al pioniere dell’underground Tonino De Bernardi.
    Possiamo chiamare il suo cinema scomodo e provocatorio, ma sarebbe riduttivo, perché rimane sempre grande cinema “del reale” ed è questo che conta. Perché Daniele Segre è stato ideatore di un inconfondibile linguaggio cinematografico di rottura con i canoni convenzionali. Regista intuitivo e curioso, riusciva a mettere in luce gli aspetti più profondi delle realtà che affrontava senza rinunciar mai al suo impegno umano, civile e politico.

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