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    “Mai abbassare la guardia”. La lezione di Vivi

    Pubblichiamo di seguito il ricordo che Maurizio Caprara ha pronunciato nel Cimitero Israelitico al Verano per la scomparsa di Vivi Buaron.

     

    Mai abbassare la guardia”. Come tutte le persone consapevoli di aver bisogno degli altri per poter capire meglio la vita, e i suoi aspetti più vari, Vivi si portò a casa questa frase da uno dei suoi viaggi più impegnativi, un ricovero al Gemelli.

     

    A dirgliela è stata una paziente avanti negli anni, un’altra donna ricoverata che lei descriveva come una bella signora elegante. Vivi, Mesauda, la incrociò dopo il primo o un secondo intervento nel suo camminare in un corridoio dell’ospedale. Ne notò la vestaglia impeccabile, i capelli in ordine. Vivi si era complimentata con lei per la sua distinzione e il suo portamento. “Mai abbassare la guardia”, le aveva risposto sobriamente austera la signora con una risolutezza che sembrava fare da specchio alla determinazione di Vivi.

     

    Ma Vivi di quella frase fece ciò che le era congeniale: anche se della vita conosceva molto, se la annotò in mente come si dovrebbe fare – e lei sapeva fare – con gli insegnamenti delle persone più anziane. Vivi adorava figli e nipoti, aveva nel cuore Daniel, Bettina, Jacopo con il quale era contenta di andare al ristorante quando aveva qualcosa da raccontarle, Tea che le ha regalato gioia andando a casa da lei per le lezioni di pianoforte, Eva con gli occhietti esplorativi e giocosi. E Vivi faceva da ponte tra generazioni. 

     

    Ascoltava con affetto la sua amica Mirella Haggiag, più grande di età, era felice quando incontrava la Senatrice Liliana Segre. A tutti noi Vivi è persona che ha insegnato qualcosa. Lei nel frattempo continuava a imparare. E quella frase della signora dall’aspetto impeccabile è stata per lei una ringhiera alla quale tenersi, una conferma della necessità di aiutarsi e di contenere inquietudini e vulnerabilità anche grazie a contegno verso l’esterno.

     

    Il contegno, nel suo insieme, è stato uno dei remi impiegati nella dura traversata nel dolore che era cominciata da poco. La ripeteva, Vivi, quella frase. E nel dirla era come se la accarezzasse e ti coinvolgesse in un suo modo di fare di necessità virtù senza espellere l’allegria dalla mente anche quando la luminosità interiore era costretta a stare nell’angolo. La pronunciava con aria anche austera, seriosa e poi si apriva in un sorriso o in una risata come se ti portasse per mano nei suoi pensieri sapendo che chi di volta in volta ascoltava – amiche, amici – l’avrebbero potuta seguire.

     

    Ogni persona ha una sua specificità, ma Vivi era quasi soltanto specificità. Profondo e inscalfibile senso di appartenenza alla famiglia e alla  sua comunità di fede, la comunità degli ebrei; istintiva autonomia nei propri pensieri e nella sua ricerca costante di aspetti della vita da conoscere, da assaggiare, da guardare, da percorrere.

     

    Femmina, totalmente donna, nella radicalità e in una certa insindacabilità delle sue preferenze e delle disapprovazioni su una cosa e sull’altra. In un secondo momento era anche pronta a cambiare idea, se lo riteneva giusto, ed era lavoratrice metodica. Aveva infatti cominciato a lavorare da ragazzina. Risultava al suo posto in una cena di benestanti nel centro di Roma, al suo posto in una fabbrica sulla Tiburtina. Colta di una cultura dovuta a letture e innanzitutto allo stratificarsi dalle esperienze, a cominciare dall’infanzia in Libia insidiata e scossa da violenza e paura, segnata dall’esodo in Italia dovuto alle spregevoli persecuzioni antisemite. Buona. Determinata, perseverante, coraggiosa di animo e generosa di cuore.

     

    Convivere con la malattia che all’improvviso aveva scoperto di avere, era il dovere imposto dai fatti. Aderire quanto più possibile alle bellezze della vita corrente che potrebbe sfuggire era la sua scelta. Senza girare a vuoto disperdendo ogni energia, si sforzava di individuare quali potessero essere la nuova terapia più efficace, il medico di avanguardia ma con i piedi per terra che avrebbero potuto sconfiggere l’aggressore. Noi tutti sappiamo che Vivi, di fronte agli impegni da affrontare, ha agito con dignità e – particolare non marginale – con un’intelligenza e un senso critico ammirevoli.

     

    La notizia della sua morte ha raggiunto le menti di molti di noi come la fucilata di un cecchino. Si sapeva di essere in guerra. Si ignorava, e talvolta era anche bene tendere a ignorarlo, quando quel colpo sarebbe arrivato e se davvero sarebbe arrivato.

     

    Di fronte a tutto questo ognuno di noi è portato a cercare un senso, una ragione. Una ragione con la quale sostenersi credo la si possa rintracciare cercando di capire che cosa ci resta di lei, che cosa ciascuno di noi a suo modo può tenere con sé aggiungendolo alla somma di quanto ha imparato finora.

     

    La Vivi di questi anni resta un esempio di come non sprecare un grammo della propria vita fino alla fine. L’ardimento con il quale ha attraversato un’infinità di visite, esami clinici, controlli, consultazioni di medici – malgrado le sofferenze, l’ammissione di sentirsi fragile, come tutti noi lo siamo e lo saremo rispetto alla nostra condizione di mortali – è stata come una linea di luce nelle sterpaglie degli adempimenti ineludibili. 

     

    La morte l’ha raggiunta alle spalle. Ma fino a quando questo non è avvenuto, pur avvertendola nei paraggi, Vivi ha cavalcato la vita, l’ha inseguita, se l’è portata addosso con la stessa delicata e marcata eleganza con la quale si vestiva per una cena o per una gita. Vivi ha indossato con naturalezza i colori della vita tanto quando questa era leggera quanto quando pesava.  La sua amica Viviana Kasam ha detto: “Amava la vita anche quando la vita era dura con lei”.  

     

    Rivendicava, Vivi, di voler continuare a vivere, poi il distacco l’ha spostata dalla vita terrena senza darle il tempo di salutare. Ma voglio credere, sono convinto, che non è sola. Rimane tra noi per gli insegnamenti e l’esempio che ha dato a ciascuno di noi e torna nella terra di Israele con l’intima pace interiore che questo può dare a chi è ebreo e sa di tornare nella terra dei padri e delle madri. Terra di continuità con chi era venuto al mondo prima di lei terra che ai giovani deve restare. Terra della comunità delle persone alle quali voleva bene.

     

    Manchi, Vivi. Ma ci sei.

    Foto di copertina di Maurizio Caprara

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