
Claudio Pagliara ha raccontato per la RAI negli ultimi anni le vicende da Pechino, Washington, Gerusalemme e Parigi. Recentemente è stato anche nominato alla guida dell’Istituto Italiano di Cultura a New York. Forte della sua esperienza sul campo, ha condiviso con Shalom un’analisi sulle prime settimane della presidenza di Donald Trump.
Come si differenzia da Biden l’approccio di Trump verso Israele?
L’approccio di Trump si caratterizza per un forte sostegno alla politica di Netanyahu e alla difesa di Israele. Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, Biden ha dimostrato grande vicinanza a Israele, ma ha anche dovuto fare i conti con le divisioni interne al Partito Democratico, spingendo per una fine del conflitto che il governo israeliano non era disposto ad accettare. Un aspetto positivo della presidenza Trump è stato l’accordo per la liberazione degli ostaggi, nonostante le drammatiche messe in scena di Hamas. Per il futuro, le proposte di Trump sembrano irrealistiche, come l’idea di trasferire la popolazione di Gaza. Questa opzione sembra un messaggio forte a Hamas e all’Iran: Trump vuole dimostrare che non ha limiti nel proteggere Israele. Ha ripristinato la massima pressione sull’Iran per fermare il finanziamento ai gruppi terroristici e per allontanare Teheran dai suoi alleati. Inoltre, Trump ha indicato che se l’Iran dovesse superare la “soglia nucleare”, gli Stati Uniti darebbero il via libera a Israele per attaccare le installazioni nucleari iraniane. Trump va interpretato seriamente, ma non letteralmente. I suoi messaggi sono indirizzati a molti destinatari e devono essere letti su più livelli. È un presidente pragmatico, pronto a cambiare posizione per tutelare gli interessi degli Stati Uniti.
La politica di Trump sul Medio Oriente come potrebbe modificare gli assetti della regione?
Il grande progetto di un’alleanza tra il mondo sunnita e la grande pace tra l’Arabia Saudita e Israele è un’idea accarezzata nel primo mandato, sostenuta anche nella presidenza Biden e torna ora con approcci diversi. L’Iran oggi è più debole ma anche più vicino all’atomica, che però Trump ha affermato di non tollerare, ritenendo che rappresenterebbe un cambiamento catastrofico per la regione. Non esclude alcuna opzione per frenare questa ambizione. Si propone principalmente come pacificatore, ma attraverso un’ostentazione di forza che preferirebbe non dover utilizzare. Questa sembra essere la sua politica. Se avrà successo o meno, lo sapremo tra quattro anni.
Come sta affrontando Trump la questione dell’antisemitismo nei campus americani?
Trump ha agito con fermezza nei confronti della Columbia University, utilizzando la leva dei finanziamenti pubblici e revocando un contributo lo scorso mese, ottenendo così provvedimenti attesi da tempo. Il più rilevante è la supervisione sui dipartimenti che si occupano di Medio Oriente, accusati di promuovere una visione unilaterale filo-araba, ignorando le ragioni di Israele. L’obiettivo è quello di garantire a tutti un ambiente accademico libero da intimidazioni legate all’identità religiosa o etnica. Questa strategia, che prevede la sospensione degli aiuti finanziari, si sta applicando anche in altri campus con buoni risultati. La Columbia, epicentro delle proteste dello scorso anno, era diventata un luogo ostile per studenti ebrei o israeliani, con slogan estremisti e aree vietate a chi esprimeva solidarietà verso Israele. Le nuove misure puntano dunque a ristabilire un clima di rispetto e libertà per tutti.
Che percezione c’è tra le comunità ebraiche americane di questa nuova amministrazione?
Le analisi post-elettorali indicano che, ad eccezione degli ortodossi, gli ebrei americani hanno come da tradizione votato prevalentemente per i Democratici. Anche quest’anno questa tendenza si è confermata, sebbene in misura inferiore rispetto agli anni precedenti. Kamala Harris, in particolare, non ha goduto di grande popolarità tra gli ebrei, creando delle incertezze: sebbene abbia fatto dichiarazioni favorevoli per attrarre i voti ebraici, nessuno sapeva realmente come si sarebbe comportata di fronte alle sfide esistenziali di Israele. Proprio la grave insicurezza in Israele, che ha coinciso con le elezioni, ha fatto sì che, nonostante temi rilevanti come i diritti civili, una parte significativa degli ebrei abbia votato per Trump. La storia insegna che gli ebrei liberali tendono a votare Repubblicano quando il candidato Democratico non sembra sostenere adeguatamente le ragioni di Israele. Questo è stato uno di quei casi. Non accadeva da molte elezioni presidenziali che gli ebrei americani facessero sentire il loro peso a favore di un candidato repubblicano. L’ultima volta fu nella seconda elezione di Jimmy Carter, nel 1980. Anche nel 2020, il 75% degli ebrei americano ha sostenuto Biden, nonostante Trump fosse stato il presidente che aveva riconosciuto Gerusalemme come capitale trasferendovi l’ambasciata. Nel 2024, invece, molti ebrei americani hanno scelto Trump per la sua politica estera, in particolare per la sua ferma alleanza nella difesa della sicurezza dello Stato di Israele.