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    Che cosa significa la rinuncia di Biden per Israele

    Un cambiamento significativo
    La decisione di Biden di non ripresentarsi alle elezioni presidenziali è una notizia importante per tutto il mondo, ma soprattutto per Israele, impegnata in una guerra difficilissima con un appoggio americano che è stato sì militarmente decisivo in alcuni momenti del conflitto (per esempio all’inizio, quando si temeva un attacco di grandi dimensioni degli Hezbollah in contemporanea con l’inizio della campagna di Gaza, oppure quando ad aprile scorso l’Iran ha cercato di bombardare direttamente lo Stato ebraico), ma per lo più ha agito da freno alla capacità di Israele di difendersi, per esempio impedendo a lungo l’ingresso a Rafah o addirittura bloccando gli indispensabili rifornimenti di munizioni e ricambi. Il giudizio sugli effetti di questo improvviso cadimento di Biden alle pressioni del suo partito sono difficili da determinare oggi.

    La visita di Netanyahu
    Per gli americani non è la cosa più importante, ma per Israele è molto significativa che la rinuncia sia avvenuta subito prima della visita di Netanyahu, che parte oggi per gli Stati Uniti e ha un appuntamento con Biden proprio domani alla Casa Bianca, il primo da quando è tornato primo ministro nel 2022. Il viaggio di Netanyahu, che mercoledì parlerà al Congresso in seduta comune, cambia completamente significato in questo contesto. È vero che Biden resta presidente e avrà la responsabilità delle politica americana ancora per quasi sei mesi: è dunque importante chiarirgli direttamente il punto di vista di Israele sulla guerra. Ma anche in questo ruolo è ormai chiaramente una “anatra zoppa” (lame duck, come si dice nel gergo politico americano) che tenderà ad avere sempre meno potere decisionale vero. L’intervento parlamentare di Netanyahu poi si svolgerà nel contesto di una campagna elettorale tornata molto incerta e sarà valutato soprattutto per questo.

    Il difficile giudizio su Biden
    È presto per valutare Biden e la sua presidenza. Probabilmente il vecchio politico, che ha frequentato Israele fin dai tempi di Golda Meir, è sincero quando si proclama sionista, cosa che ha fatto ancora due giorni fa. È vero che tiene all’esistenza di Israele, come ha dimostrato anche visitando il Paese in guerra poco dopo il 7 ottobre – un gesto che nessun presidente americano aveva mai fatto. Ma il suo appoggio per lo Stato ebraico si inquadra entro una politica di “equilibrio” con i nemici che lo vogliono distruggere, prima di tutto l’Iran. La sua ideologia è ancora quella di Obama e prima di Carter, con l’obiettivo di una pacificazione con l’Islam e con l’idea che l’America e in generale l’Occidente debba “pagare dei debiti” al Terzo Mondo e che il “rispetto dei diritti umani” venga prima di ogni altra considerazione, incluse le condizioni concrete che li rendono possibili, vale a dire la capacità della democrazia di difendersi.

    Le prospettive
    Che cosa avverrà ora nella politica americana è difficile da prevedere. È possibile che la candidatura di Kamala Harris, che come vicepresidente è la scelta più ovvia per sostituire Biden, si consolidi e che dunque le elezioni di ottobre si giochino fra lei e Trump. Il profilo politico della Harris non è ben definito, fra la linea dura contro il crimine e l’immigrazione di certe fasi della sua carriera e l’alleanza implicita con i settori più radicali del partito democratico che sembra perseguire nell’ultimo periodo. Alcune dichiarazioni recenti di “comprensione” per le proteste universitarie contro Israele vanno purtroppo in questa direzione. Il fatto che abbia un marito ebreo non è probabilmente molto rilevante. Ma è possibile anche che emergano nuove candidature di personalità politicamente meglio definite come i governatori di alcuni stati, ma meno note al grande pubblico. È chiaro che il rischio per Israele è la prevalenza dell’ala sinistra dei democratici, chiaramente contraria ormai allo Stato ebraico, che ha avuto parecchia influenza durante gli ultimi anni. Se questo fosse il risultato della nuova candidatura, verrebbe a cadere anche la garanzia parziale offerta dall’orientamento personale di Biden. Non a caso il voto ebraico, tradizionalmente allineato con i democratici, si è riorientato verso Trump, in particolare quello dei molti israeliani che dopo l’immigrazione hanno conservato la cittadinanza americana.

    Il rischio immediato
    Oltre alle prospettive future, vi è anche un rischio immediato. La guerra contro Israele guidata dall’Iran si è scontrata in questi mesi coi limiti stabiliti dall’amministrazione americana, ribaditi sul terreno dalla presenza di importanti gruppi aeronavali. Questa è forse la ragione per cui Hezbollah e direttamente l’Iran hanno evitato di utilizzare la maggior parte delle loro forze, limitandosi finora a un conflitto di intensità relativamente bassa sul fronte libanese e siriano. La turbolenza politica negli Usa potrebbe indurre gli strateghi iraniani a sfidare questi ostacoli cercando di forzare la situazione e aprire un secondo fronte di guerra sul terreno mentre le truppe israeliane sono ancora massicciamente impegnate a Gaza. Insomma è possibile il primo risultato della rinuncia di Biden siano degli attacchi per testare la risolutezza americana (e quella israeliana).

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