“Nonostante la terribile emergenza sanitaria che il nostro Paese si trova ad affrontare non permetta lo svolgimento di cerimonie commemorative, oggi ricordiamo l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Una strage che rimane impressa nella nostra storia e che, insieme al doveroso ricordo delle vittime, spinge a un momento di riflessione sui principi di libertà e giustizia su cui si basa oggi la nostra democrazia e in nome dei quali si è battuta la Resistenza. In momenti come quello in cui ci troviamo è fondamentale rinnovare la nostra devozione a questi valori e ritrovare in quel senso di unità la forza per reagire a questa grave crisi.”
Lo dichiara Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma in una nota.
L’eccidio delle Fosse Ardeatine fu realizzato dai nazisti, per rappresaglia contro un attentato partigiano subito in via Rasella (che provocò la morte di 33 soldati), con l’ordine di fucilare 10 italiani per ogni tedesco ucciso.
Il 24 marzo 1944 i tedeschi, guidati da H. Kappler, ufficiale delle SS, comandante della polizia tedesca a Roma, trasportarono alle Fosse Ardeatine – una cava di tufo situata tra le catacombe di Domitilla e di s. Callisto sulla via Ardeatina – 335 fra detenuti politici (civili e militari), ebrei (75) o semplici sospetti (scelti assieme al questore fascista Pietro Caruso) e li trucidarono. Il massacro avvenne a 23 ore dall’attentato e fu reso noto solo a esecuzione avvenuta.
Qualche giorno dopo il massacro, che riguardò un numero di vittime maggiore rispetto a quello che l’ordine originario aveva prescritto, fecero saltare con la dinamite le volte della galleria per ostruire l’accesso alla cava.
Nel 1947 Kappler, che era stato arrestato dagli inglesi, fu processato e condannato all’ergastolo da un tribunale militare italiano. Rinchiuso nel carcere di Gaeta, nel 1976 fu trasferito all’ospedale militare del Celio per motivi di salute. Da qui però evase, con l’aiuto della moglie, il 15 agosto 1977, provocando un enorme scandalo e le dimissioni dell’allora ministro della Difesa V. Lattanzio.
Erick Priebke, aiutante di Kappler, fu arrestato in Argentina ed estradato in Italia solo nel 1995. Fu processato per l’eccidio nel 1996, ma il tribunale militare giudicò il reato estinto, suscitando le proteste dei familiari delle vittime e sdegno della comunità ebraica romana. Condannato all’ergastolo dalla Corte d’appello (1998), lo scontava agli arresti domiciliari. Dal 1949 un sacrario costruito sul luogo dell’eccidio, meta di continui pellegrinaggi, ne custodisce la memoria.