A volte un gesto, anche piccolo, può far rumore. O musica, come in questo caso. Come è riuscito a fare Michael Di Porto, ventiquattrenne pieno di passioni che sabato ha intonato davanti al Colosseo la melodia di “Am Israel Chai”. Un canto di speranza, in un periodo buio e pieno di insicurezze, eseguito da un giovane ebreo senza paura. Con indosso una maglia con la scritta “Bring Them Home”, riferito agli ostaggi rapiti da Hamas, Michael nel cuore della Capitale ha fatto sentire la sua voce, e idealmente quella di tanti giovani che come lui, non hanno paura. Shalom ha intervistato Michael, che ha rivelato molto di sé, delle sue passioni ma soprattutto della sua identità ebraica.
Cosa ti ha spinto a fare questo gesto?
In realtà è nato tutto in modo abbastanza casuale. Ero lì semplicemente per cantare in strada un paio d’ore, ma quando ho visto il nastro giallo degli ostaggi proiettato sul Colosseo mi è venuta una gran voglia di cogliere l’occasione di fare qualcosa di unico. Ho messo subito una story su Instagram per segnalare quanto stesse accadendo, ed ho ricevuto risposta dal mio amico Benedetto Sacerdoti, Rappresentante per l’Italia del Forum delle famiglie degli ostaggi. Lui mi ha portato la maglietta con scritto “Bring Them Home”, e assieme abbiamo girato il video pubblicato ed un altro paio di backstage che usciranno prossimamente.
Come è nata la tua passione per il canto?
Non ho un momento preciso, la passione per il canto me la porto dietro da quando sono nato, con alti e bassi ovviamente. Non è però soltanto qualcosa di mio, ma un amore che mi è stato trasmesso dalla mia stessa famiglia. Con il canto mi diverto e riesco a coinvolgere le persone intorno a me. Inoltre, ultimamente, ho scoperto che con il busking (arte di strada) posso unire il dovere al piacere, dato che riesco a guadagnare discretamente per gli standard di un semplice studente.
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E lo fai regolarmente nella tua vita?
Ad oggi studio economia in magistrale, ma in triennale mi sono laureato in fisica ed ho passato l’ultimo anno e mezzo a fare diverse esperienze che mi sono servite per chiarirmi cosa volessi davvero dalla vita. Ho viaggiato, ho lavorato e ho passato un periodo in un moshav in Israele al confine con l’Egitto in cui ho svolto del volontariato.
Cosa volevi comunicare questo gesto?
Ho voluto dare voce al mio orgoglio, l’orgoglio di essere ebreo, sionista, e soprattutto di non avere paura. Sappiamo tutti che il nostro popolo sta vivendo un momento molto difficile. La situazione degli ostaggi spesso viene dimenticata dal mondo ed anche questa è stata una delle motivazioni che mi ha portato a fare questo gesto, ma come già anticipato non è l’unica. Oggi, nuovamente, non è facile essere ebrei. Il mondo è di fatto riuscito di nuovo ad odiarci: nessuno si dice antisemita, ma poi in moltissimi fanno la distinzione tra gli ebrei buoni (i pochissimi antisionisti) e gli ebrei cattivi (la stragrande maggioranza degli ebrei sionisti). Questi atteggiamenti, puramente antisemiti, rendono problematico anche soltanto comunicare agli altri la nostra identità ebraica. Dietro alla parola sionisti, coscientemente o meno, pregiudizi vecchi e nuovi vengono a galla. Per come la vedo io, il pregiudizio è legato all’ignoranza. I meccanismi dell’antisemitismo e la mancanza di conoscenza sono difficili da combattere, ma se questo é il risultato, vuol dire che necessariamente dobbiamo fare di più.
Quindi la tua mission, attraverso la tua arte, e far conoscere la verità?
Io la verità non ce l’ho in tasca, e non pretendo di imporre a nessuno quello che io posso pensare. Ma allo stesso tempo quello che vedo è che le persone hanno il bisogno e la necessità di confrontarsi con un ebreo. Un ragazzo che oggi dice che i “sionisti” occupano terre altrui è un ragazzo che probabilmente non ha mai parlato con un ebreo in vita sua, e che di sicuro non ha la minima idea di chi siano gli ebrei. Ed è su questo che noi dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Al contrario, capita spesso che abbiamo l’atteggiamento opposto, invece di farci conoscere ci chiudiamo nel tentativo di proteggerci. Ci sono validissime ragioni storiche per cui abbiamo spesso questo atteggiamento; ma se pensiamo che il non ebreo non potrà mai capirci, e che arginare in modo significativo i pregiudizi ed i meccanismi dell’antisemitismo sia impossibile, allora perché siamo ancora in Italia? Andiamo direttamente tutti in Israele! Io non ho voglia di vivere in un Paese in cui comunicare agli altri una cosa normalissima, come la mia identità ebraica, sia un problema. Non ho voglia di essere costantemente non compreso dal prossimo. Non ho voglia di essere straniero in casa mia, quando tra l’altro gli ebrei hanno contribuito in modo significativo alla nascita e allo sviluppo dell’Italia. Ed anche chiudendoci tutti in Israele non credo che il problema dell’antisemitismo si risolverà. Abbiamo buoni rapporti con le istituzioni e tutto ciò è importantissimo, ma a cosa serve se poi buona parte delle persone comuni ci odia? Di fatto non abbiamo scelta, se non comunicare tutti i giorni ed in modo efficace agli altri chi siamo; soprattutto perché dall’altra parte sono invece bravissimi a farlo. Certo li aiuta il numero, ma dobbiamo allora trovare modi alternativi per avere una buona risonanza mediatica. Questo mio gesto è stato proprio un tentativo di parlare agli altri, di far vedere con orgoglio la mia identità ebraica e sionista, e anche di far vedere che un ebreo é una persona qualunque, come un semplice cantante di strada. É pericoloso? Si. Ma non abbiamo altra scelta. Dobbiamo manifestare, farci sentire e conoscere, discutere tra noi e con gli altri. Questa è e deve essere la nostra battaglia, soprattutto quando i nostri fratelli e le nostre sorelle in Israele stanno combattendo una guerra vera. Vorrei rifare flash mob come questi in futuro, e se con me ci fossero 10 ,20, 30 persone si potrebbe riuscire a veicolare il messaggio con ancora più forza. Sono finiti i tempi in cui dobbiamo nasconderci o avere paura, dunque: Am Israel Chai.