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    Io, ebrea di Libia, figlia della Shoah – Quelle parole non dette

    Mi sono sempre considerata fortunata. Il destino di una persona può essere segnato dal nascere nel momento sbagliato nel luogo sbagliato, ed io ho avuto grandi opportunità essendo nata dopo il Secondo Conflitto, ed avendo potuto crescere ed educarmi in quella parte d’Europa che negli ultimi decenni non ha conosciuto la guerra.

     

    Sono fuggita bambina insieme alla mia Comunità, dalla Libia, ed ho raggiunto l’Italia che mi ha dato il sapore della libertà, e la possibilità di esprimere i miei sentimenti.

     

    Ma di Storia, sì, quella più brutta, ne ho saputo qualcosa in più solo crescendo; guardando delle immagini alla tv che prima non comprendevo ma mi lasciavano il raccapriccio, e che poi man mano che affrontavo l’argomento, soprattutto alla Scuola dello Yad VaShem, prendevano fosche tinte dentro di me, facendomi chiedere ripetutamente “perché non io?” e saturandomi l’anima, mi obbligavano a porre una distanza tra chi non ne sapeva nulla, o sussurrava quasi fosse un “insulto” se fossi di “origine israelitica”, quasi non osasse pronunciare la parola “ebrea”. Ho cominciato a riunire delle tessere sparse nella mia coscienza, qua e là riaffioravano frasi dette e non dette tra i miei genitori o gli zii, dinanzi a me che non dovevo capire, ma quando in qualche altra lingua captavo la frase di mio padre “la piccola ci ascolta”, fingevo di non esser presente pur di capire quello che lui riteneva non dovessi ascoltare e parlava di chi “era stato “là” D. ce ne liberi”. Non sapevo dove fosse là, il loro pudore non lo faceva pronunciare.

     

    Il mio rammarico più grande è di non aver scritto tutti i ricordi di mia madre: so che rimase una ferita indelebile quando venne cacciata in terza media dalla scuola e la segretaria disse che non avrebbe mai più potuto frequentare, lei allieva modello. Lo zio Lillo, fratello maggiore, correva in bicicletta, nonostante i bombardamenti a Benghasi in Cirenaica, per procacciare del pane al mercato nero. So che in seguito al ritorno delle truppe italiane, nel 1942 tutta la famiglia venne evacuata su dei camion militari e che si dovettero portare materassi e sacchi di grano per il viaggio nel deserto che li avrebbero condotti a Tigrinna, dove vissero in caverne trogloditiche senz’acqua, senza porte o finestre, ma con gli scorpioni. Il pane secco era di farina di sabbia.  Dissenteria e tifo petecchiale facevano il resto. Ci fu l’ordine di Mussolini di metterli in un campo di concentramento a Garian, altri a Giado, lì avrebbero dovuto essere assassinati. So che la Zia Rachele rimase vedova, il marito Meyr morì “di crepacuore” quando le camicie nere saccheggiarono e incendiarono la loro gioielleria, in un assalto contro la Comunità che aveva salutato con gaudio l’arrivo delle forze britanniche.

     

    Con loro c’erano i soldati indiani che violentavano le donne, e bisognava nasconderle.

     

    Stranamente mia madre aveva conservato un’ottima opinione delle suore, nonostante io alla materna fossi sempre stata presa come esempio della malvagità giudaica.

     

    So che mio padre venne arrestato a Tripoli e poi internato con lo zio Arthur in uno degli oltre cinquanta campi di concentramento, credo Buerat El Hsun, e poi trasferito in Tunisia; il generale Ettore Bastico aveva deportato oltre 700 cittadini ebrei francesi oltre confine, ebrei stranieri nemici della Patria, avrebbero dovuto servire come scambio di prigionieri con gli italiani; so che contrasse una grave malattia infettiva, ma che sopravvisse. Alcune zie furono portate a Belgen Belsen, cittadine britanniche da usare come scambio di prigionieri.

     

    Quando furono liberate, e tornarono in Libia,  dovettero superare anche tre pogrom. Quando chiedevo a papà perché non andiamo in Italia? Mi rispondeva: dopo quello che ci hanno fatto, non voglio. So che vennero deportati due zii da Padova e da Torino, ma non so i nomi. Se non c’à Memoria è come se non fossero mai vissuti. So che papà e mamma soffrivano di malinconia che non permetteva loro di ridere dal profondo del cuore e che questa mestizia li accompagnò tutta la vita. So che non possiamo neanche più rintracciare le tombe degli zii, sono state divelte, anni dopo,  anche le loro ossa, per sfregio.

     

    Loro non raccontavano, era troppo doloroso. Sapevano sulla propria pelle, ma salvaguardarono la nostra infanzia.

     

    Certe ferite non si rimarginano più.

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