Mentre Moshè, dopo quaranta giorni e quaranta notti sul Monte Sinai,
riceveva le tavole della legge e si apprestava a scendere, gli israeliti
avevano perso speranza di rivederlo e avevano deciso di sostituire Moshè con
una statua di un vitello d’oro. La discesa di Moshè dal Monte Sinai viene così
descritta: “Moshè si dispose a scendere dal monte, recando in mano le dua
tavole della testimonianza, tavole scritte dai due lati, scritte sull’una e
sull’altra faccia. Queste tavole erano opera divina e i caratteri incisi sulle
tavole erano caratteri divini” (Shemòt,
32:15-16). Le tavole erano pesanti, ciascuna delle due tavole aveva una
dimensione di un braccio per un braccio per mezzo braccio (circa 50x50x25 cm)
ed insieme formavano un cubo di un braccio di lato. E quando Moshè scendendo
dal monte vide il vitello e le danze “si accese il suo sdegno, gettò le tavole
dalle sue mani, mandandole a pezzi ai piedi del monte” (ibid., 19).
R. Chayìm Yosef David Azulai (Gerusalemme, 1724-1806, Livorno) in Penè David commenta che per un peccatore
che si sente addolorato per il peccato che ha fatto c’è speranza, ma per colui
che è lieto di averlo commesso, come in questo caso in cui ballavano attorno al
vitello, non c’è speranza. Per questo Moshè sdegnato, gettò le tavole che si
ruppero.
Moshè pregò per il
popolo con queste parole: “Deh, o Eterno , questo popolo è colpevole di un
grave peccato, si fabbricarono una divinità d’oro. Ora perdona la loro colpa, o
altrimenti cancellami dal libro che hai scritto” (ibid., 33: 31-32).
L’Eterno perdonò il
popolo e disse a Moshè: “Scolpisci due tavole di pietra uguali alle precedenti
e Io scriverò su queste tavole le parole che erano nelle precedenti che tu hai
rotto” (ibid., 34:1).
Riguardo a questo
versetto Rashì (Francia, 1040-1105)
commenta: “Tu hai rotto le precedenti ora tu devi scolpirti delle altre”. Nel
Talmud babilonese (trattato Shabbàt,
87a) è scritto che il Santo Benedetto disse a Moshè: “Yeshàr kokhakhà (gli italiani direbbero “Chazàk barùkh”) per avere rotto le tavole”. Nel trattato Menachòt (99b) R. Shim’on ben Lakish
disse: “Qualche volta annullare la Torà serve a ridarle la base” (bitulà shel Torà zehu yesodà). Moshè
non solo non venne criticato per aver rotto le tavole della legge, ma
addirittura venne lodato.
R. Barukh Halevi Epstein (Belarus, 1860-1941) in Torà Temimà cita il trattato Pesachìm (87a) dove i Maestri spiegano
la ragione per cui Moshè ruppe le tavole. Egli disse: “il sacrificio di Pèsach è una sola mitzvà e non è permesso agli idolatri di offrirlo; ora nelle tavole
vi è tutta la Torà [con tutte le mitzvòt]
e gli israeliti si sono comportati da apostati, a maggior ragione non è giusto
che le ricevano”.
Moshè risalì sul Monte
Sinai “e rimase li con l’Eterno quaranta giorni e quaranta notti…” (ibid.,
34:27)
R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1986, New York) in Daràsh Moshè (ed. inglese, p. 149) si
domanda per quale motivo Moshè dovette rimanere per la seconda volta per
quaranta giorni sul Monte Sinai per ricevere le seconde tavole. Nei primi
quaranta giorni sul Monte Sinai Moshè aveva già imparato tutta la Torà. E
quindi che bisogno c’era di passare altri quaranta giorni sul monte? R.
Feinstein suggerisce che Moshè aveva imparato tutta la Torà prima del peccato
del vitello d’oro quando gli israeliti erano in stato di purità e di kedushà dopo aver ricevuto la Torà al
Sinai. Ora, dopo aver commesso il peccato del vitello d’oro ed essere caduti in
basso, Moshè non doveva solo ripassare quello che aveva imparato, ma doveva
ristudiare il tutto con maggiore intensità e forza per essere in grado di
guidare una generazione che aveva peccato. Forse è per questo motivo che la
Torà afferma che Noach (Noè) era giusto perfino nella sua generazione di gente
perversa. Infatti per fare il leader di una generazione di peccatori e avere
influenza su di loro è necessario un sforzo molto maggiore.