Silvana Weiller Romanin Jacur è mancata centenaria nelle scorse ore a Padova. Era una signora elegante e schiva. All’inaugurazione della sua personale curata dalla nuora Marina, a Palazzo della Guardia di Padova nel 2011, l’atmosfera era molto speciale: parenti lieti di ritrovarsi, amici e amiche di quattro generazioni curiosi e divertiti, autorità e cittadini pronti a scoprire tele che non avevano mai varcato i saloni dello studio privato e rassicurante di Silvana in Prato della Valle.
Donna colta e raffinata, moglie, madre, nonna e bisnonna dolce e sensibile, Silvana è stata una pittrice e scrittrice atipica. Ragazzina curiosa, a Milano, ha realizzato a carboncino i primi schizzi; alla fine della seconda guerra mondiale, trasferitasi a Padova, ha cominciato a cimentarsi con successo in campo artistico, quando non era per nulla scontato che una giovane donna riuscisse farsi strada.
Ha utilizzato l’arte per raccontare ai figli storie fantastiche accompagnate da disegni realizzati su lunghi rotoli di carta, in cui, spiega Marina, “si rincorrevano figure di barbuti patriarchi ebrei, regine di Saba o Ester dai grandi, languidi occhi, animali e piante esoteriche, ritratti con ironia e vivacità.” Nei ritratti delle persone care dimostrava grande tenerezza e acuta psicologia. Gli alberi sono una costante nella sua produzione “dipingo gli alberi – diceva – perché sono quello che vedo dalla finestra”, poi aspirava dalla sigaretta, gettava fuori il fumo e l’attenzione passava ai quadri monocromi: di grande fascino sono le tele “Sole bianco”, “Cristallizzazione in rosso” e “Luna nera”.
“Non sappiamo perché il sogno scelga talvolta un solo colore per narrare – spiegava Silvana – resta il fatto che talune forme legate a un colore rappresentano con pungente immediatezza il sentimento e dall’emozione nascono direttamente adeguandovisi nel ritmo dei rapporti, nel gioco delle tensioni”.
Parole e immagini si sono armonizzate negli anni fissando memorie, ritmi ed emozioni con delicatezza e sensibilità.