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    “343 giorni all’inferno” : su Raiplay il documentario sul sequestro di Barbara Piattelli – Un capitolo di storia italiana che resta aperto

    343 giorni di paura, di attese, di incubo nell’inferno dell’Aspromonte. Era il 10 gennaio del 1980 quando Barbara Piattelli veniva sequestrata a Roma dalla ‘ndrangheta. Un sequestro che ha scritto una delle pagine più buie della storia contemporanea d’Italia, e che Raiplay racconta in un documentario vibrante, “343 giorni all’inferno”, in prima visione esclusiva, dal 25 novembre.

     

    Una storia dolorosa che ancora, a distanza di più di 40 anni, lascia i suoi echi profondi nel corpo e nella memoria di Barbara, figlia del noto stilista romano Bruno Piattelli. Lei aveva 27 anni quando avvenne il sequestro: quella sera Barbara doveva andare assieme al suo fidanzato di allora, e oggi marito, Ariel Arbib, alla prima di un attesissimo spettacolo di Carlo Verdone al Piccolo Eliseo. Ma mentre Ariel attendeva Barbara fuori dal teatro, nel garage della famiglia Piattelli si consuma la tragedia: due uomini sequestrano la ragazza e la trascinano in una vettura. L’ultima immagine che oggi ricorda Barbara è un’arma puntata su sua madre Vittoria. Da lì inizia un incubo, scandito da giornate infinite per quasi un anno, e le scene di quest’incubo sono due: Roma, la casa dei Piattelli, dove l’angoscia e il dolore tengono i famigliari con il fiato sospeso, e l’Aspromonte, dove Barbara affronta in una grotta sommersa nel folto mafioso, la sua sfida più dura.

     

    E sono le memorie di quel terribile evento, sullo sfondo delle immagini di repertorio dell’epoca, il cuore del documentario “343 giorni all’inferno”, che rende la fotografia di un capitolo di storia italiana, quella della stagione plumbea dei sequestri in Calabria, che resta ancora aperto. «Non ho mai raccontato la mia storia. Ma adesso eccomi qui. Questa vicenda mi ha rubato un anno di vita. Nessuno me lo restituirà mai. Anche il corpo ricorda, con molta forza» ricorda la Piattelli nel documentario, che spinge la forza del racconto oltre le lacrime di chi rivive attimo dopo attimo il dolore. «I sequestratori mi dissero che mio padre non voleva pagare, ma io non ci credevo» dice, e infatti Bruno Piattelli, recentemente scomparso, tenne ben saldo il timone, soprattutto nelle conversazioni telefoniche, riportate nel film, con gli ‘ndranghetisti: «Bisognava ascoltare bene ciò che dicevano i rapitori. Mia figlia non avrebbe mai mollato» dice lo stilista nella sua testimonianza.

     

    Ma è sulla scena del parco prigione dell’Aspromonte che si consumano i giorni più duri: l’ostaggio è tenuto tra sporcizia, freddo e immobilità in una “buca”, e quando lei tenta di scappare viene anche incatenata. «Il freddo mi è rimasto, lo sento ancora adesso. Non camminavo più, non avevo la forza nelle gambe, che erano completamente atrofizzate». 

     

    Il dialogo minaccioso costante con la famiglia, è per i malavitosi l’arma più importante per estorcere denaro. E toccava alla madre di Barbara, Vittoria Citoni Piattelli, recuperare tracce, messaggi, che i rapitori spargevano per la città. Un giorno arrivò una lettera indirizzata alla famiglia, autografata da Barbara, in cui lei scriveva di essere maltrattata e picchiata. «Dopo la firma c’era scritto “iani”, un termine usato nel linguaggio orientale per smentire quanto detto o scritto – spiega Ariel Arbib – questo elemento ci fece prendere fiato». 

     

    Dopo le trattative con la ‘ndrina, raccontate nel film, venne un giorno di pioggia apparentemente come tanti altri, e la Piattelli fu liberata. Ma la vera liberazione per lei giunge solo nella prima telefonata con suo padre che le dice “vita mia” e dopo l’abbraccio con i genitori. «Mia madre ebbe il pensiero pazzesco di portarmi un fazzoletto intriso del mio profumo. Non sentivo profumi da un anno, e mamma lo sapeva».

     

    Tutta la famiglia riesce a guardare avanti e ricostruirsi una vita, ma sente ancora oggi che il cerchio non si è chiuso: «Dopo mi ascoltò un magistrato che mi pose domande superficiali, sentivo come se la mia vicenda non fosse stata abbastanza importante. Ad oggi non sono mai stata riconosciuta come vittima delle mafie».

     

    «L’iniziativa di raccontare la vicenda di Barbara Piattelli nasce dall’esigenza di Raiplay di continuare a percorrere la stagione dei sequestri. – spiega a Shalom l’autrice di “343 giorni all’inferno” Vania Colasanti – Barbara non ha avuto giustizia, non è stata riconosciuta vittima delle mafie, e questo rappresenta una beffa. Forse adesso il fatto che questa vicenda venga proposta pubblicamente può aiutare a riaprire questo capitolo. Ciò che mi ha colpito di più della storia, è la forza di questa donna, la sua dignità, anche dietro le lacrime».

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