È il 20 settembre del 1982. Una coltre di angoscia e preoccupazione è già calata sulla Comunità Ebraica di Roma: la guerra in Libano, Sabra e Shatila, hanno riacceso nell’opinione pubblica e in buona parte del mondo politico l’antisemitismo e l’antisionismo. Nel primo pomeriggio di quella giornata alcuni volontari della comunità, di sorveglianza alla sinagoga, vedono un gruppo di uomini dai tratti mediorientali a Monte Savello. I volontari sono preoccupati, perché con i tempi che corrono sanno che può accadere di tutto e che bisogna stare con gli occhi aperti. Vorrebbero parlare con le forze dell’ordine, ma lì non c’è nessuno. Così riescono a fermare una vettura di agenti della polizia penitenziaria, al ritorno da un servizio a Piazzale Clodio. Dopo essere stati informati della presenza di uomini dai tratti mediorientali, i poliziotti allertano le forze dell’ordine, ma all’arrivo dei carabinieri alcuni del gruppo si sono già dileguati. Ne vengono fermati due, che dopo essere stati interrogati, dando inizialmente versioni contrastanti, sono rilasciati. Secondo i volontari della comunità, ascoltati dagli inquirenti, quel gruppo di uomini gli aveva destato sospetto perché dava l’impressione di studiare la zona, di fare un sopralluogo.
Dopo 19 giorni, il 9 ottobre del 1982, le forze dell’ordine non sono presenti a sorvegliare la sinagoga, quando gli ebrei celebrano la festività di Sheminì Hatzeret, e alle 11.55 fuori dall’edificio i terroristi del gruppo di Abu Nidal sparano raffiche di mitra e lanciano granate sui fedeli all’uscita della funzione religiosa. Stefano Gaj Tachè, bambino di soli due anni, viene ucciso, e 40 persone restano ferite. Al processo sarà condannato in contumacia Osama Abdel Al Zomar, terrorista ancora a piede libero, la sua storia è ben nota. Uno dei volontari, che verrà ascoltato dagli inquirenti dopo l’attentato, riferirà che i terroristi sono fuggiti proprio da una strada in cui il 20 settembre si aggirava, scrutando il territorio, quel gruppo di uomini.
A 39 anni da quel terribile giorno, restano ancora molte domande senza risposta: perché le forze dell’ordine non presidiarono la sinagoga il 9 ottobre dell’82? Gli eventi precedenti alla strage sono stati sottovalutati, ignorati, dalle autorità? Si è veramente fatto di tutto per estradare l’unico colpevole identificato e condannato? Nel 2019 la Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello ha incaricato due avvocati, Cesare Del Monte e Joseph Di Porto, di acquisire (con la collaborazione dell’avvocato Marco Veneziani) tutti gli atti del processo, per approfondire, studiare, migliaia di pagine, e capire se a distanza di quasi quarant’anni si può far finalmente luce su quella ferita ancora aperta per gli ebrei di Roma, l’intera città, e l’Italia. Shalom ha intervistato gli avvocati Del Monte e Di Porto.
Sono passati 39 anni dall’attentato del 9 ottobre dell’82. Perché riaprire questo fascicolo?
L’esigenza nasce proprio dal fatto che, a distanza di 39 anni dalla strage, l’unico imputato processato e condannato all’ergastolo è ancora libero, senza aver scontato un solo giorno di carcere. Il presidente Dureghello ci ha incaricato, nel marzo 2019, di verificare se fosse stato emesso e, in caso affermativo, se fosse ancora valido l’ordine di cattura europeo ed internazionale del condannato. Verificata la pendenza ancora efficace del mandato di cattura, abbiamo chiesto l’accesso al fascicolo processuale e, a quel punto, abbiamo estratto copia degli atti, da noi ritenuti più rilevanti, e si è deciso di rileggerli per verificare se ci fossero spunti per aprire nuovi filoni di indagine.
Perché questa nuova missione di rileggere la storia, che potrebbe aprire nuovi scenari, arriva adesso?
Passati gli anni crediamo sia stata avvertita l’esigenza di affrontare quella vicenda drammatica, non solo con il taglio emozionale, ma anche razionalmente, soprattutto rileggendo gli atti alla luce di tutto quanto emerso negli anni successivi circa le complicità internazionali fra organizzazioni terroristiche, nonché con riguardo al famigerato “lodo Moro” che volle le Autorità politiche del tempo estremamente tolleranti nei confronti del terrorismo palestinese. Alla luce di queste emergenze, ormai accertate in altre sedi giudiziarie e non, si prova a rileggere gli atti processuali per verificare l’esistenza di eventuali elementi all’epoca non valorizzati o non conosciuti.
I 14 faldoni, 15 mila pagine, e decine e decine di immagini, da voi acquisiti, ci ripongono vecchie domande che ancora attendono una risposta. Perché la mattina del 9 ottobre dell’82 non erano presenti le forze dell’ordine a sorvegliare la sinagoga, peraltro in un momento storico difficile e molto delicato per gli ebrei di tutta Europa?
La questione solleva alcuni dubbi oggettivi. In una nota del giugno 1983 la Questura di Roma, rispondendo all’Autorità giudiziaria, riferì che, date le tensioni politiche createsi a seguito del conflitto in Libano, già dall’estate del 1982 erano stati predisposti servizi di vigilanza e sicurezza a tutela degli obbiettivi ebraici. Questi servizi consistevano, citiamo testualmente, in “… un servizio di vigilanza fissa continuativa a tutela della Sinagoga e del quartiere ebraico dalle ore 19.00 di ogni giorno alle ore 7 di quello successivo.” In più, sempre a detta della Questura, i servizi venivano potenziati in occasione delle festività ebraiche e su richiesta della Comunità. Va detto, però, che la situazione stava velocemente degenerando. In data 22 settembre 1982 era stata segnalata alla Questura la possibilità di attentati dinamitardi in danno di obbiettivi ebraici e, citiamo ancora testualmente, “… cosa peraltro che si era verificata a Milano nella notte fra il 2 e il 3 settembre”: probabilmente l’informativa fa riferimento all’episodio della notte tra il 29 e il 30 settembre quando a Milano, a via Eupili 8, esplode un ordigno di fronte alla sede del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, dove vi erano anche gli uffici della comunità ebraica. Ma, e soprattutto, nel pomeriggio del 20 settembre 1982, 19 giorni prima dell’attentato, alcuni volontari della sorveglianza della Comunità avevano chiesto l’intervento delle Forze dell’Ordine perché avevano notato un gruppo di ragazzi dai tratti mediorientali stazionare, per alcune ore, nei pressi del Tempio maggiore ed in Via di Monte Savello. Intervenuti i Carabinieri, alcuni di loro si dettero alla fuga, altri, identificati ed interrogati, fornirono versioni discordanti sul perché si trovassero lì e su quanti fossero. Evidentemente la loro presenza in loco doveva essere letta come indizio di un pericolo reale ed attuale ma, invece, non fu valorizzata come avrebbe dovuto.
L’attentato a Milano, la segnalazione di un gruppo sospetto da parte dei volontari della comunità ebraica di Roma, assieme ad altri noti episodi di antisemitismo: insomma, pare che le avvisaglie vi fossero tutte. E’ possibile che siano state trascurate?
Non bisogna essere tecnici del diritto o esperti in sicurezza, né avere il senno del poi per concludere che il pericolo era tutt’altro che ipotetico. I segnali c’erano tutti ed è evidente che, nella migliore delle ipotesi, non siano stati valutati correttamente.
È stato fatto tutto il possibile secondo voi per arrestare l’unico imputato e condannato per l’attentato?
Da un punto di vista giudiziario, assolutamente si. Al passaggio in giudicato della sentenza, fu emesso l’ordine di esecuzione e, a seguito delle vane ricerche sul territorio nazionale, furono tempestivamente emessi gli ordini di cattura internazionali, prontamente comunicati all’Interpol. Diverso è il giudizio sull’impegno del Governo.
E quale è questo giudizio sull’impegno del governo?
Sull’attività di governo non possiamo riferire noi che stiamo studiando gli atti giudiziari. Su questo il giudizio sta alla politica e agli storici. Il dato certo è che quando Al Zomar fu catturato in Grecia e l’Italia ne chiese l’estradizione, al diniego del governo ellenico, l’Italia non usò gli strumenti diplomatici e giudiziari adeguati. Basta vedere la composizione del governo di allora per comprendere le ragioni di questa linea “morbida”. La speranza è che adesso si impegnino le stesse risorse e le stesse energie che sono state profuse nella ricerca e nella cattura di altri personaggi, estradati in Italia anche di recente.
Il prossimo anno saranno passati 40 anni, vi siete posti un obiettivo?
L’obiettivo è duplice. Da un lato provare a introdurre elementi nuovi, perché emersi negli anni successivi, che siano di aiuto all’identificazione degli altri attentatori e degli eventuali complici. Dall’altro richiamare l’attenzione sul fatto che, a distanza di 40 anni, nessuno ha ancora pagato per il ferimento di numerosi cittadini italiani di religione ebraica e, soprattutto, per il barbaro assassino di un bimbo di due anni.
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