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    Spade di ferro giorno 44. Come proseguire l’operazione?

    Un successo operativo

    Ormai sono passate sei settimane intere dall’inizio della guerra e si può dire che essa proceda tecnicamente bene per Israele: il territorio di Gaza è stato in gran parte espugnato e il resto è a portata di mano; i tentativi terroristi di portare ancora truppe offensive sul territorio israeliano partendo da Gaza, dal mare, dalla Giudea e Samaria o dal confine settentrionale sono falliti; molte roccaforti di Hamas e delle altre organizzazioni sono state conquistate e distrutte, come pure diversi luoghi simbolici del potere; molti dirigenti militari e civili (ammesso che una tale distinzione abbia una base effettiva) sono stati liquidati; numerosi chilometri di gallerie militari e centinaia di imbocchi sono stati distrutti. Tutto ciò con un costo umano terribile (perché ogni soldato che scompare è un futuro che non ci sarà) ma non così ingente come si temeva. I militari israeliani caduti sono al momento nell’ordine del centinaio o di qualche decina oltre: un numero dieci volte inferiore delle vittima del massacro del 7 ottobre. Il fatto che la quantità dei caduti in combattimento sia stata almeno in parte limitata rispetto alle revisioni, va attribuito alla collaborazione fra esercito e aviazione, alle tattiche prudenti, alla scelta di non cadere della trappola di Hamas di uno scontro sotterraneo frontale e immediato. Anche la devastazione di Gaza è certamente un peso, perché Israele agisce per autodifesa e non per vendetta; ma questo peso ricade interamente sui terroristi, che hanno usato quasi ogni casa, ogni moschea, ogni scuola, ogni luogo pubblico e istituzionale come fortezze, depositi, centri di comando, accesso ai tunnel offensivi, caserme, carceri.

     

    Come reagire alle pressioni americane

    I risultati sono dunque positivi, per quanto si può dire di una guerra, che è un male necessario per distruggere una minaccia chiara ed estrema. Procedendo ancora altri giorni e settimane e mesi in questa maniera senza dubbio si elimineranno altri terroristi, si distruggeranno altre loro istallazioni, si neutralizzeranno quei lanciarazzi che, è bene ricordarlo, ancora sparano contro Israele – e nessun “pacifista” chiede che smettano. Ma alcuni dubbi si affacciano sui modi di questa continuazione e un dibattito in merito è iniziato nella leadership israeliana, a quanto riferiscono i giornalisti in Israele. Il primo dubbio è quanto si potrà andare aventi così. La propaganda conto Israele è sempre molto accentuata. È vero che l’opinione pubblica internazionale ormai è più attenta ad altri temi e non dedica al conflitto l’attenzione spasmodica dei primi giorni, ma ciò comporta anche il rischio di dimenticare le immagini del massacro, non vedere più le ragioni che hanno indotto Israele a dichiarare contro Hamas una guerra totale, che può terminare solo con una completa distruzione dell’organizzazione terroristica. E la macchina della pubblicità islamista e antisemita agisce ancora a pieno ritmo. Soprattutto ci si chiede fino a quando i rapporti di forza internazionale consentiranno a Israele di proseguire il suo lavoro di pulizia di Gaza. In Israele di solito le guerre sono iniziate da azioni aggressive dei nemici, sono gestite dai primi ministri e dai capi militari israeliani, ma sono concluse per imposizione internazionale, soprattutto degli Usa. Accadde così nel 1956, nel ‘67, nel ‘73, nelle quattro precedenti operazioni di Gaza. È vero che Biden sta dimostrando in questo caso, come per l’Ucraina, una stoffa che non si sospettava e una lucidità ben diversa da quello del suo maestro Obama, ma bisogna calcolare che prima o poi possa imporre di accettare una tregua, magari anche se occorre con una sostituzione di Netanyahu, per cui si è già pubblicamente proposto, in maniera decisamente impropria Yair Lapid. Che fare quando la pressione americana non si limiterà solo a ottenere rifornimenti e sospensioni momentanee del fuoco, ma punterà a ottenere la fine dell’offensiva?

     

    Gli ostaggi

    Il secondo tema è quello degli ostaggi. Ci sono state trattative in Qatar e in Egitto. Sembra che Hamas dica di essere disposto a liberare 50 fra le 240 persone che sono state rapite il 7 ottobre, bambini e donne civili, in cambio di 150 fra i terroristi arrestati da Israele (donne coinvolte in attività terroriste e adolescenti presi con le armi), e soprattutto di cinque giorni di sospensione delle operazioni israeliane – forse anche solo di tre. C’è dibattito nel gabinetto di guerra fra chi propone di accettare questa offerta (sembra soprattutto i servizi di informazione che hanno trattato l’accordo, alcuni comandanti militari e la sinistra) e chi (sembra soprattutto Netanyahu e Gallant) pensa che bisogna cercare di recuperare tutti gli ostaggi, pressando ancora di più Hamas e quindi rifiutando ogni sospensione. Finora ha prevalso Netanyahu, ma non si sa fino a quanto questa posizione terrà. Appare chiaro che Hamas abbia rinunciato a cercare di sconfiggere questa volta l’esercito israeliano e punti soprattutto a mantenere l’integrità delle sue truppe e della sua catena di comando e che dunque stia cercando la via di una tregua che paralizzi Israele o una via garantita di fuga. Per questo vuole usare gli ostaggi. La notizia che moltissimi “pazienti” sono usciti ieri dall’ospedale Shifa senza che Israele lo ordinasse va forse spiegata in questo senso. Ma si tratta di una china pericolosa, che potrebbe svuotare quasi del tutto la vittoria di Israele con tutti i sacrifici che essa ha comportato e aprire la strada a un uso prolungato dei rapiti come merce di scambio.

     

    La minaccia di Hezbollah

    Il terzo tema è quello dei limiti della guerra. Israele in sostanza ha accettato il tacito patto con Hezbollah, di mantenere gli scambi di fuoco al nord a un livello sostanzialmente simbolico e per ora ha risposto alle aggressioni dal Nord solo colpo su colpo. Per Israele è certamente più sicuro non dover affrontare una guerra su due fronti, anche perché Hezbollah è molto più armato e ricco di esperienza di combattimento di Hamas. Ma i terroristi libanesi non sono certo meno feroci e minacciosi di quelli di Gaza. È possibile per i cittadini della Galilea e in generale per gli israeliani convivere con una minaccia molto più grave di quella di Hamas? Non vi è un piano dell’Iran di tentare una nuova sorpresa? Non bisognerebbe cercare di eliminare anche il pericolo che sta ai confini di Israele con Libano e Siria? Se lo chiedono in tanti, politici e giornalisti. E anche su questo il dibattito è acceso.

     

    La conclusione della guerra

    Il tema che riassume tutti questi problemi è quello della conclusione della guerra. Quando Israele potrà considerare raggiunto il suo obiettivo e smobilitare l’esercito, che ha un costo pesantissimo sull’economia del paese? Quanto tempo e quali forze ci vogliono per estirpare Hamas da Gaza? E che futuro si prevede per Gaza? Un’amministrazione militare israeliana? Un protettorato internazionale? e con che composizione? L’attribuzione della Striscia all’Autorità Palestinese che non la seppe tenere e non riesce neppure a frenare il terrorismo in Giudea e Samaria? Sono tutte soluzioni difficili, con lati pericolosi. E inoltre non è detto che Israele possa decidere da solo. Molto probabilmente dovrà negoziare la soluzione almeno con gli Usa. Ma se non è chiara la strategia di uscita da questa guerra, sarà anche difficile decidere come condurne la prosecuzione.

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