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    Spade di ferro giorno 37. Diplomazia araba e tempo che stringe

    Il vertice di Riad

    Due eventi politico diplomatici del mondo arabo erano molto attesi per la giornata di sabato. Uno è la conferenza dei capi di stato e di governo dei principali paesi arabo-musulmani che era stata convocata a Riad dal governo saudita. C’erano tutti, dal padrone di casa, l’erede al trono della Arabia Muhammad bin Salman. a Erdogan, dal presidente egiziano Al Sissi a quello dell’Iran Raisi, dal re di Giordania Abdallah a Mohamed Abbas, capo dell’Autorità Palestinese, al dittatore siriano Assad ai vari emiri del Golfo. Molti leader di paesi  acerrimi nemici come l’Arabia e l’Iran o l’Iran e l’Egitto, o La Siria e l’Arabia, si incontravano per la prima volta dopo molti anni e polemiche infinite. Da questo punto di vista il vertice è stato certamente un successo di prestigio per l’Arabia. Ma le divergenze di interesse sono rimaste e dunque le dichiarazioni finali sono state solo un esempio di retorica vuota. Il principe ereditario saudita ha chiesto la fine dei combattimenti e la liberazione dei sequestrati – che chiaramente sono scopi contraddittori. Mohamed Abbas dell’Autorità Palestinese ha chiesto elezioni a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme. Il presidente turco Erdogan, che ha apertamente attaccato Israele, ha chiesto un’indagine sulle bombe nucleari israeliane e l’evacuazione dei feriti in Egitto. Il presidente egiziano ha chiesto la creazione di uno stato palestinese entro i confini del 1967, ma ha anche ribadito che non vuole un varco umanitario aperto con Gaza temendo che gli abitanti di Gaza invadano il Sinai. Il presidente iraniano ha chiesto di risolvere il problema palestinese attraverso la creazione di uno Stato palestinese che includa tutto il territorio israeliano: posizioni diverse, in cui l’omaggio alla cause palestinese e la richiesta della fine della guerra erano elementi comuni, ma privi di contenuto reale.

     

    Nasrallah

    Alla conferenza non hanno partecipato i belligeranti: né i leader di Hamas, che se ne stanno comodamente ospiti di alberghi di lusso nel Qatar, né naturalmente Israele e neppure il capo di Hezbullah, Hassan Nasrallah, il quale non ha rango di capo di stato e del resto era adeguatamente rappresentato dall’Iran, che ne è il sostanziale padrone. Anzi Nasrallah ha snobbato l’incontro, fissando il suo secondo discorso sulla guerra (dopo quello del venerdì della settimana precedente) in concomitanza dei lavori di Ryad. Anche questo comizio televisivo era molto annunciato e sebbene ci fossero meno attese di quello precedente, ha abbondantemente deluso i sostenitori di Hamas. Nasrallah ha detto di appoggiare gli “eroici” combattimenti di Hamas, ha attribuito la colpa del conflitto a Israele, ma soprattutto agli Usa, ha vantato le azioni del suo gruppo terroristico che secondo lui impegnano un terzo dell’esercito israeliano, ha detto che Hezbollah è in guerra con Israele dall’8 ottobre e che fa tutto quel che deve fare, escludendo dunque per ora quel bombardamento massiccio che sarebbe il vero pericolo per Israele, Infine ha detto che senza dubbio i palestinesi vinceranno, ma a tempo debito e ha chiesto di pregare per loro. Insomma, un’altra occasione di propaganda.

     

    Il conflitto alla frontiera settentrionale

    Nel frattempo gli scontri al confine settentrionale di Israele (con il Libano e con la Siria) sono sempre allo stesso punto: uno scambio di colpi, in cui normalmente i gruppi terroristi sparano contro gli avamposti israeliani razzi anticarro (ma qualche volte anche missili più pericolosi, fra cui quello che l’altro ieri è finito su una scuola per fortuna vuota all’altra estremità del paese, a Eilat); e anche un drone diretto verso Haifa dal mare. Israele blocca i tiri più pericolosi con gli antimissili e risponde colpo su colpo con l’artiglieria e con gli aerei, penetrando talvolta fino a decine di chilometri in territorio nemico per distruggere concentrazioni di terroristi o le loro armi. Ma è chiaro che per il momento i terroristi intendono segnalare a Israele e al mondo arabo la loro militanza in favore di Hamas, ma non vogliono farsi coinvolgere in una guerra vera e propria, anche perché stanno vedendone i costi a Gaza.

     

    Gli ostaggi

    Si era diffusa fra venerdì e sabato, la notizia di un accordo mediato dal Qatar per il rilascio di un centinaio fra coloro che Hamas ha rapito il 7 ottobre in cambio di un certo numero di prigionieri condannati detenuti nelle carceri israeliane e forse anche di un cessate il fuoco momentaneo. Era un tentativo propagandistico o un bluff. motivato forse dal viaggio che nei giorni scorsi il capo del Mossad ha fatto nel Qatar in concomitanza del capo della Cia. Esso mette in evidenza il ruolo estremamente ambiguo del Qatar, che è insieme un alleato e finanziatore dei terroristi, il loro portavoce con Al Jazeera, e un alleato degli americani, che in quell’emirato tengono la base militare più importante del Medio Oriente. Ma è chiaro che il solo modo di ottenere la liberazione degli ostaggi è aumentare la pressione su Hamas. I carri armati Merkavà dell’esercito israeliano sono ormai in vista dell’ospedale Shifa, che è anche la copertura della più importante base sotterranea di Hamas. Israele ha collaborato all’evacuazione dei bambini dall’ospedale, come continua ad assicurare l’esito dalla zona di guerra dei civili di Gaza, con sospensioni quotidiane dell’attività lungo l’asse stradale principale nord-sud della Striscia. Ma la propaghanda anti-israeliana si incentra sull’attacco agli ospedali, che però è la conseguenza del loro uso militare illegale, come scudi umani, da parte dei terroristi. Ormai siamo vicini alla battaglia per la conquista del quartier generale di Shifa, che sarebbe un colpo decisivo per Hamas. Non sarà facile, perché ci sono ancora decine di migliaia di terroristi inquadrati e molti di loro sono pronti alla difesa della roccaforte. Ma è questione di tempo. E proprio il tempo dei combattimenti è diventato l’oggetto centrale della pressione politica di Israele: non solo da parte dei palestinesi e dei loro alleati arabi, ma anche di molti paesi occidentali pressati da una crescente mobilitazione di piazza, che ha sempre più evidenti caratteri antisemiti.

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