Memoria di un mese
È passato un mese. Il 7 ottobre scorso, poco prima dell’alba, una pioggia di missili partiva da Gaza in direzione di Israele. In una ventina di punti veniva la barriera di sicurezza (che marca un confine internazionalmente riconosciuto, ricordiamolo) veniva abbattuta con esplosivi e bulldozer e circa 3000 terroristi di Hamas, Jihad Islamica e anche del braccio militare di Fatah, le “brigate di Al Aqsa”, montati su motociclette e jeep, invadevano il territorio israeliano assalendo i kibbutz, i villaggi e le cittadine vicine al confine, devastando il prato dove si svolgeva una festa musicale, torturando, violentando, mutilando, ammazzando tutti quelli che trovavano (ebrei israeliani in grande maggioranza, ma anche beduini musulmani, lavoratori thailandesi, turisti che si trovavano lì). Alla fine il bilancio sarà di oltre 1400 morti, 240 rapiti, molte migliaia di feriti. Sicuramente la più grande azione terroristica dopo le Twin Towers, e altrettanto certamente la più crudele della storia: neonati arrostiti nel forno di cucina, donne incinte col ventre squartato e il feto fatto a pezzi davanti ai loro occhi prima di essere ammazzate, bambini decapitati, adulti mutilati, ragazze e vecchie esposte nude al ludibrio e alle percosse della folla prima di essere finite… Non bastano le parole a raccontare la crudeltà di questo massacro terrorista.
Gli errori di Israele
Israele è stata colta gravemente impreparata. L’eccidio non sarebbe dovuto succedere, avrebbe dovuto essere preavvisato dai servizi di informazione e prevenuto dall’esercito; la politica di appeasement di Hamas era profondamente sbagliata e così la strategia di contenimento basata solo su mezzi elettronici e in genere l’ottimismo sulla convivenza. Ci sarà tempo dopo la fine della guerra per esaminare le responsabilità individuali e per attuare i cambiamenti di politica e di personale necessari: Israele ha sempre indagato sui risultati delle sue azioni e imparato dai fallimenti. Ma la colpa vera, naturalmente, è dei terroristi, non di chi è stato troppo ottimista o inaccurato nel campo israeliano.
Il progetto terrorista
I terroristi avevano diversi obiettivi. Il primo dal punto di vista ideologico e psicologico era quello di umiliare gli ebrei, di sterminarli almeno per quel tanto che era possibile, di mostrare superiorità, disprezzo, ferocia, secondo la dottrina tradizionale dell’Islam, di indurre terrore i Israele. Questa è la ragione per cui i terroristi si sono attardati a compiere le loro sevizie su anziani, bambini e ragazzini invece di cercare degli obiettivi militari “duri”, dove avrebbero potuto fare dei danni strutturale anche più gravi. La seconda ragione era far partire una guerra vera e propria con Israele, nell’illusione di mobilitare tutto il mondo islamico o almeno la regione circostante. La terza ragione era il tentativo di sabotare la pace fra Israele e Paesi arabi, innanzitutto l’Arabia saudita, vista come un pericolo gravissimo dai loro mandanti dell’Iran e da loro stessi, che vivono di guerra e di violenza.
I risultati
Tutti e tre questi progetti sono falliti. Israele non si è fatto terrorizzare, anzi ha superato le sue divisioni e ha ritrovato uno spirito combattivo unitario che da tempo non si vedeva; il mondo civile ha mostrato orrore per il sadismo dei terroristi e solidarietà per Israele. La guerra si è rivelata perdente e anche gli alleati dei terroristi se ne sono tenuti lontani, pur facendo discorsi bellicosi e realizzando qualche attacco propagandistico, badando però bene a non offrire a Israele un casus belli. Gli accordi di Abramo hanno tenuto, sia pur con qualche concessione di forma da parte dei governanti arabi alla propaganda panarabista. È probabile che alla fine della guerra il processo di pace possa ricominciare da dove era rimasto, anzi rafforzato dalla dimostrazione di forza di Israele.
Vincere la guerra
Ma per questo, per mostrare la criminale inutilità della strage, Israele deve vincere la guerra, che continua: ogni giorno vi sono lanci di razzi su Israele da Gaza, Libano, Siria, Yemen. Israele deve vincere, non limitarsi a “contenere” Hamas, come in fondo ha già fatto. Deve eliminare la struttura tecnica, ma soprattutto liquidare quella umana di Hamas: neutralizzare o imprigionare e sottoporre a processo i grandi capi, i quadri intermedi, anche i terroristi semplici. Mettere Gaza in una condizione che non possa mai più essere l’isola franca del palestinismo, in cui non ci siano più fabbriche d’armi, campi di addestramento, lanciarazzi, tunnel d’assalto. Bisognerà vedere come fare, con che struttura di governo, ma l’obiettivo è questo. Se non ci riuscisse, in breve, al massimo nel giro di qualche anno, con l’aiuto dei Paesi filoterroristi, Iran in testa, il terrorismo riemergerebbe daccapo, con le stesse modalità. E come l’Europa non ha potuto ricominciare dopo la Shoah senza l’eliminazione completa del nazismo, la resa senza condizioni della Germania e il processo di Norimberga, così è per il Medio Oriente di oggi. Per questo chi vuole “cessate il fuoco” e “tregue umanitarie” provvisorie (che poi diventano definitive), salvacondotti per i capi terroristi e cose del genere, non lavora solo per salvare Hamas, ma anche per far continuare la guerra. Un mese è passato, ne dovranno passare altri, finché il lavoro di pulizia, per difficile e sanguinoso che sia, non sarà terminato.