I bersagli denunciano il terrorismo
Ormai ci stiamo abituando, tanto che non ci facciamo quasi più caso: ogni giorno Hamas e la Jihad Islamica sparano da Gaza salve di missili contro varie località israeliane, scelte apparentemente a caso: Tet Aviv, Gerusalemme, Eilat, Haifa, Sderot, città minori e villaggi. Sono proiettili veri, con grandi carichi che possono abbattere una casa e uccidere molta gente, ma la grande maggioranza di quelli potenzialmente letali sono abbattuti da Iron Dome. La cosa che di solito non si nota e che invece è importante è questa: i bersagli di questi lanci sono tutte località civili. Non si hanno notizie di razzi abbattuti sopra le base militari. Infatti l’obiettivo non è militare, ma terroristico: non cercare di sconfiggere l’esercito nemico, ma di distruggere il popolo ebraico o almeno di terrorizzarlo, umiliarlo, impoverirlo, ferirlo. Colpendo a caso secondo la logica dell’ “a chi tocca, tocca”, che è stata anche la regola della selvaggia mattanza del 7 ottobre: ammazzare tutti quelli che stanno a tiro.
Le azioni mirate di Israele
Ogni giorno invece Israele annuncia chi ha colpito e perché. Per esempio. il 26 pomeriggio, il portavoce dell’esercito israeliano ha dichiarato: “L’IDF e lo Shin Bet [il servizio di informazione interna] hanno eliminato il vice capo del dipartimento di intelligence di Hamas […] Aerei da combattimento, guidati da accurate informazioni provenienti dalle forze di intelligence e dallo Shin Bet, hanno ucciso ieri il vice capo del dipartimento di intelligence di Hamas, Shadi Barud. Nell’ambito del suo precedente incarico […] presso il quartier generale delle operazioni di Hamas, Barud ha pianificato con Yahya Sinwar, leader di Hamas nella Striscia di Gaza, i piani d’attacco che sono stati portati avanti nel raid omicida in Israele il 7 ottobre. In passato, Barud ha servito anche come comandante di battaglione nel settore Khan Yunis ed è stato coinvolto nella pianificazione di numerosi attacchi terroristici contro cittadini israeliani. Successivamente ha ricoperto diversi incarichi nell’intelligence militare di Hamas ed è stato responsabile della sicurezza informatica dell’organizzazione. Ci sono decine di comunicati del genere, emessi nelle scorse due settimane e mezzo. Israele non spara a caso, non uccide il primo che capita, mira ai nemici e alle forze militari del terrorismo. Certamente vi sono vittime collaterali, come in ogni guerra. Ma non sono loro l’obiettivo e l’esercito fa quel che può per minimizzare queste perdite, compresi gli appelli ai civili perché lascino le zone dei combattimenti, ciò che Hamas cerca di impedire con la forza.
I consiglieri americani
Ieri è sbarcato in Israele un contingente importante di marines americani. Non si sa che ruolo avranno, certamente non parteciperanno ai combattimenti, ma costituiscono un rafforzamento della retroguardia dell’operazione di terra che si avvicina e indicano in maniera molto concreta l’impegno americano. In conseguenza a questo impegno, che noi forse vediamo poco ma in Medio Oriente è chiarissimo, gli Usa stanno subendo attacchi continui con droni e razzi alle loro basi in Siria e in Iraq e se davvero Biden ha chiesto a Netanyahu di attendere per l’operazione di terra che sia pronto il rafforzamento della difesa antimissile di queste basi, è del tutto ragionevole che Israele abbia accettato. La politica di Biden in Medio Oriente è stata pessima negli anni scorsi, in continuità con le scelte di Obama; ma l’impegno che si è assunto a partire dal pogrom di Hamas non somiglia affatto a quelle scelte e ha pochi paragoni nei rapporti fra Usa e Israele. Fra i marines arrivati in Israele c’è fra l’altro un generale a tre stelle, dunque un ufficiale di alto livello: si tratta di James Glynn, esperto di combattimenti urbani, che ha guidato importanti contingenti americani nelle guerre in Iraq.
I tentativi diplomatici dei terroristi
Quanto più si avvicina l’operazione di terra per distruggerli, tanto più ferve l’ attività diplomatica dei terroristi. Si è avuto ieri notizia di una conversazione telefonica di Ismail Haniya, presidente dell’ufficio politico di Hamas, che risiede all’estero, probabilmente in Qatar con il potente capo dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel. Vi è stata la richiesta da parte del Qatar di un “cessate il fuoco umanitario”, ripresa con maggiore o minore sincerità non solamente da un gruppo di capi di Stato arabi (dall’Egitto all’Arabia agli Emirati), ma anche in Europa dalla Spagne e che rischia di diventare la linea europea, rifiutata da Biden. Vi è stato un lavorio arabo all’Onu che ha probabilmente favorito la famigerata dichiarazione del segretario generale Guterres, ma ha anche portato al fallito tentativo di Cina e Russia di una votazione del Consiglio di Sicurezza che condannasse Israele. Hamas ha anche annunciato di essere disposto a liberare degli ostaggi (non si sa se tutti o quanti), a patto di metterli “nelle mani dell’Iran”, il che chiarisce bene il ruolo degli ayatollah.
Il coinvolgimento della Russia
E infine probabilmente l’episodio più significativo: oggi è arrivata a Mosca una delegazione con il vice capo del consiglio di Hamas, Musa Abu Marzuk, che ha incontrato il rappresentante di Putin in Medio Oriente e in Africa, il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov. Hamas in una nota dice di apprezzare molto la posizione di Putin e invita la comunità internazionale a prestare attenzione al “genocidio commesso dal governo sionista”. Bogdanov ha espresso sostegno per i diritti del popolo palestinese. Insomma gli schieramenti sono sempre più chiari. Chi deve decidere la propria posizione e sapere se schierarsi con gli Usa e dunque con Israele o con Spagna (purtroppo titolare sia della presidenza di turno che del ruolo di alto commissario della politica estera con Borrell, degno successore di Mogherini), con l’Iralanda, col Belgio e dunque in realtà con la Russia. Quando la guerra entrerà nella sua parte decisiva, anche queste ambiguità inevitabilmente si dovranno sciogliere.