La fine di un assassino
Yahya Sinwar, il capo di Hamas, è stato eliminato mercoledì scorso a Tal El Sultan, un quartiere della città di Rafah, a poco più di un chilometro dal confine con l’Egitto. È un risultato importante sul piano della giustizia, perché Sinwar era stato l’organizzatore e il principale responsabile delle stragi del 7 ottobre, era un torturatore crudele e un assassino, aveva deciso personalmente l’orribile trattamento delle persone rapite, era soprannominato dai palestinesi “il macellaio di Kahn Yunis” non per il male che aveva fatto agli israeliani ma per quello che aveva inflitto agli abitanti arabi di quella città. Ma la sua morte è anche un fatto rilevante sul piano politico e militare, perché Sinwar, da molti anni leader di Hamas a Gaza, ne aveva preso in mano direttamente anche il comando militare dopo l’eliminazione il 30 luglio del precedente responsabile Mohammed Deif e inoltre era stato nominato presidente dell’ufficio politico di Hamas dopo che era stato ucciso all’inizio di luglio Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas. Era l’uomo di fiducia degli iraniani: cosa che non si può dire del suo probabile successore in quest’ultima carica di Khaled Meshal, che è piuttosto l’uomo dei turchi nella leadership di Hamas; ma ci sono altri candidati come Khalil al-Hayya e il fratello di Sinwar, comandante terrorista della zona sud di Gaza. Ma con la sua figura truce e sanguinosa e con la sua lunga clandestinità a Gaza, Yahya Sinwar era anche un’autorità indiscussa fra i terroristi sul campo e un punto di riferimento per tutti i sostenitori della distruzione di Israele. È stato compianto non solo dall’“asse della resistenza”, ma anche da Turchia, Autorità Palestinese e dai filoterroristi di mezzo mondo, inclusa l’Italia. Non c’è dubbio che questo sia il colpo più duro per l’asse anti-israeliano, anche più dell’eliminazione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah.
Come è stato liquidato Sinwar
L’operazione, secondo i resoconti israeliani, è stata un risultato inatteso del pattugliamento di Rafah ad opera dei carristi di leva della 828ᵃ brigata; non vi sono stati coinvolti né i servizi di informazione (quello militare Haman e quello interno Shanak, che hanno competenza su Gaza, dove non opera il Mossad), che hanno ancora difficoltà a penetrare la rete di Hamas. I soldati di pattuglia hanno notato mercoledì tre terroristi in fuga verso il confine, li hanno inseguiti ed eliminati senza sapere di chi si trattasse. Solo il giorno dopo, ispezionando la casa che avevano colpito si sono accorti che uno di loro era probabilmente Sinwar e un altro Mahmoud Hamdan, comandante della brigata di Hamas a Tal al Sultan – identificazioni poi confermate. Sono dettagli significativi perché danno ragione a Netanyahu e al governo israeliano che si è battuto contro tutti per occupare Rafah il corridoio “Filadelfi” al confine con l’Egitto e continuare a ispezionarle per eliminare tutti i terroristi. Avevano invece torto i molti (fra gli altri Biden, Harris, Macron, Guterres, Putin, l’Egitto, l’Unione Europea, tutta la sinistra del mondo inclusa quella italiana e in parte anche il nostro governo), che profetizzavano grandi disastri se Israele fosse entrato nell’ultima roccaforte di Hamas. Fra costoro c’è chi per Rafah ha minacciato e anche attuato un blocco dei rifornimenti militari all’esercito israeliano. Il disastro c’è stato, ma per Hamas. È una grande fortuna per Israele avere un primo ministro come Netanyahu che non si piega allo spirito di resa (la “sindrome dell’appeasement”) della leadership europea e americana.
Che succede ora
Molti politici e commentatori, anche qualcuno non pregiudizialmente ostile all’autodifesa di Israele, hanno sostenuto che la morte di Sinwar aprisse una “finestra di opportunità” per la conclusione della guerra o almeno una tregua e la liberazione dei rapiti, purché Israele desse segnali di “moderazione”, per esempio rinunciando ad attaccare l’Iran in risposta ai bombardamenti recenti e considerasse di aver ottenuto il proprio obiettivo, liquidando il capo di Hamas. Non è così. Innanzitutto i segnali che vengono con numerose dichiarazioni dall’Iran e da Hamas (che grazie al lavoro di questi mesi non ha la forza di cercare di vendicarsi con nuovi missili), e da Hezbollah anche con nuovi bombardamenti di droni e missili incluso il tentativo di colpire la casa di Netanyahu, sono del tutto negativi.
La posizione israeliana
Ma anche da parte israeliana, la guerra iniziata dopo il pogrom del 7 ottobre non è motivata da ragioni di giustizia e neppure può limitarsi alla liberazione degli ostaggi. Israele non vuole neppure conquistare nuovi territori. Cerca semplicemente di compiere il dovere fondamentale di ogni stato, garantire la sicurezza dei propri cittadini. Per questo scopo essenziale la guerra continua, come ha detto Netanyahu, anche in questo momento sul terreno, fin che ci saranno terroristi in libertà. Ma non basta aver distrutto largamente la forza militare di Hamas e in parte notevole anche quella di Hezbollah. Occorre completare il loro disarmo, sradicarli dai territori vicino a Israele dove sono ancora insediati, deradicalizzare la popolazione palestinese e sciita che come mostrano i sondaggi li appoggia largamente. E bisogna anche tagliare le unghie della testa della piovra terrorista, che è lo stato teocratico dell’Iran.
Il problema è l’Iran
Hezbollah e Hamas (e gli Houti, e la dittatura siriana e i terroristi iracheni, quelli sudanesi ecc.) non sarebbero pericolosi se non fossero finanziati e armati dall’Iran, con l’appoggio di Russia e Cina. Anche se sconfitti, potrebbero presto risorgere se l’Iran continuasse nella sua politica della “cintura di fuoco” intorno a Israele, ricominciando ad armarli, allenarli, finanziarli. L’Iran, sessanta volte più vasto di Israele e dieci volte più popolato, lavora da decenni per procurarsi la bomba atomica che lo renderebbe inattaccabile. È uno stato clericale e dittatoriale che opprime la sua popolazione; è guidato dal piano imperialista di dominare tutto il Medio Oriente, distruggere Israele e mettersi a capo dell’Islam nella conquista del mondo. Perfino l’amministrazione Biden che sulle tracce di Obama ha cercato a lungo di fare accordi con esso, concorda oggi che l’Iran non deve avere l’atomica. Ma ha esplicitamente proibito a Israele, che pure come paese aggredito ne ha il diritto, di cercare di eliminarne gli impianti nucleari. Ora è il momento in cui è possibile farlo, anche se al costo probabile di una rappresaglia pesante. Solo eliminando la minaccia atomica dell’Iran la guerra sarebbe davvero finita e con essa l’aggressione islamista all’Occidente. Si aprirebbe un quadro politico del tutto diverso, di pace e benessere per tutto il Medio Oriente. Il governo israeliano è di fronte a una scelta molto difficile, come fu difficile entrare a Rafah contro l’opposizione di tutti. Vedremo nelle prossime settimane, mentre si avvicina l’appuntamento decisivo delle elezioni americane, quali saranno le sue scelte.