Il conflitto continua
La guerra che Israele sostiene da più di cinque mesi prosegue, anche se a ritmo irregolare: al nord vi è un’estensione dello scontro con Hezbollah, che ha aumentato il numero di lanci di missili sul territorio israeliano ed è colpito in profondità nel territorio libanese. Continua con buon successo il lavoro delle forze di sicurezza in Giudea e Samaria, per prevenire l’esplosione che i terroristi hanno minacciato per il Ramadan. A Gaza vi sono due zone in cui l’esercito deve ancora entrare: al centro della Striscia, il “campo”, cioè la cittadina di Deir al-Balah, bombardata ieri, e al sud Rafah. Soprattutto in quest’ultima località si concentra ciò che resta delle forze organizzate di Hamas fra cui probabilmente anche i capi, e vi sono anche detenuti i rapiti. Israele per il momento non ha cercato di entrare in questa città, anche se sa che è essenziale farlo. Le ragioni sono la preoccupazione di salvaguardare il più possibile la vita dei rapiti, dando spazio a una trattativa che nonostante qualche annuncio ottimista non sembra però procedere, soprattutto per le pretese di Hamas di ottenere il ritiro, cioè la sconfitta di Israele; la necessità di sgomberare dal futuro campo di battaglia i numerosi sfollati civili che vi soggiornano; l’attenzione a non dare pretesti per proteste popolari durante la festa del Ramadan; e soprattutto una decisa ed esplicita opposizione americana.
Lo scontro con Biden
Ormai lo scontro fra amministrazione americana e governo israeliano è aperto. Biden ha dichiarato che l’azione a Rafah è una “linea rossa” e Netanyahu ha replicato che essa è necessaria alla vittoria totale su Hamas, cui Israele non può rinunciare. L’amministrazione americana ha fatto uscire un rapporto dei servizi di sicurezza in cui si dice che il governo Netanyahu è debole e potrebbe presto cadere e Netanyahu ha risposto che la sua politica, cioè la continuazione della guerra fino alla vittoria è condivisa dalla grande maggioranza del popolo israeliano e della Knesset (il parlamento), aggiungendo che Israele non è un protettorato americano. Biden ha lasciato capire che potrebbe proibire l’uso di armi americane in operazione che non gli sono gradite.
Le forze politiche israeliane che gli Usa cercano di usare
È chiaro che l’amministrazione americana vorrebbe rovesciare il governo israeliano. In questo contesto si situa l’appello di Ehud Barak, ex primo ministro e principale ispiratore e finanziatore delle manifestazioni antigovernative dell’anno scorso a “stringere d’assedio” la Knesset per rovesciare il governo: un appello che però ha provocato solo qualche manifestazione antigovernativa non troppo partecipata. Ma vi fa parte anche il recente viaggio a Washington di Binyamin Gantz, membro del gabinetto di guerra ma sulla base dei sondaggi possibile capo dell’opposizione a Netanyahu, senza l’accordo del primo ministro che invece è necessario secondo le regole dei governi di Israele. Nello stesso senso vanno certamente le dichiarazioni molto polemiche di Yair Lapid contro il bilancio presentato alla Knesset dal governo. In effetti la votazione del bilancio, che dovrebbe avvenire nei prossimi giorni è una delle occasioni prescritte dalla legge per la possibile apertura di una crisi di governo.
Il riposizionamento di Sa’ar
In questo clima molto frammentato e polemico, com’è spesso la politica israeliana, vi è stata però anche un segno opposto che rafforza Netanyahu. Il movimento di Gantz, HaMaḥane HaMamlakhti cioè “Il campo nazionale”, è composto di diversi partiti raggruppati intorno a un leader. Uno di questi è quello di Gideon Sa’ar, che, dopo essere stato a lungo il vice di Netanyahu al Likud, un paio d’anni fa ne è uscito, confluendo poi con Gantz e ottenendo alle ultime elezioni quattro deputati sui 120 della Knesset. Ora Sa’ar ha annunciato di ritirarsi ufficialmente dal movimento di Gantz ma di mantenere il suo appoggio al governo, chiedendo anche una rappresentanza al gabinetto di guerra per perseguire la politica della continuazione dell’operazione di Gaza fino alla vittoria, che è la linea di Netanyahu. La vicenda non è chiarissima per chi non ha confidenza con la politica israeliana, che è ancora più frammentata e personalistica di quella italiana: non si sa se il progetto di Sa’ar sia di rientrare nel Likud e di candidarsi alla successione di Netanyahu quando egli si ritirerà o solo di avere uno spazio politico autonomo. Ma certamente esso rende più difficile la crisi di governo cercata da Biden e rafforza Netanyahu, che può pensare con più tranquillità a come far partire l’operazione di Rafah.