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    L’impresa di Entebbe, 45 anni fa – Intervista a Tamir Pardo, uomo del commando israeliano di Yoni Netanyahu

    Sono passati 45 anni da quei giorni di fine giugno e inizio luglio del 1976 quando si svolse la più ardita azione antiterrorismo di Israele, l’impresa di Entebbe. Il 27 giugno un aereo dell’Air France diretto da Parigi a Tel Aviv fu dirottato, dopo una sosta tecnica ad Atene, da quattro terroristi, due del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e due della banda tedesca Baader-Meinhof. I terroristi costrinsero l’equipaggio a dirigersi prima a Bengasi in Libia e poi all’aeroporto di Entebbe in Uganda. Qui separarono i non ebrei dagli ebrei: i primi furono liberati e poterono tornare in Francia, i secondi, circa un centinaio, furono tenuti come ostaggi in un locale del terminal dell’aeroporto, con l’appoggio del governo dell’Uganda. I dirottatori volevano, in cambio della loro vita, la liberazione di circa 25 terroristi che scontavano la pena nelle carceri  di Israele e di altri paesi. Israele decise di non cedere e di cercare di liberare gli ostaggi con la forza. così nacque l’impresa di Entebbe, che si svolse il 4 luglio sotto la direzione di Yoni Netanyahu. “Shalom” ne ha parlato con un testimone eccezionale, Tamir Pardo, che allora partecipò alla liberazione degli ostaggi essendo responsabile delle comunicazione della commando che assalì il terminal. In seguito Pardo ha lavorato a lungo nei servizi segreti di Israele, fino a diventare l’undicesimo capo del Mossad, da gennaio 2011 a gennaio 2016.

     

    Signor Pardo, come entrò nel gruppo che compì l’impresa di Entebbe?

     

    “Era appena finita la guerra del Kippur e la situazione per noi non era facile. C’erano state molte perdite, molti morti, un senso generale di difficoltà. Io avevo finito il mio servizio militare obbligatorio e sentivo fortemente la necessità di reagire,  di impegnarmi per rafforzare la difesa Israele. Ero paracadutista, decisi di fare la scuola per ufficiali e feci domanda di entrare in un reparto di combattimento speciale, i commando della Sayeret Matkal  (un nome che significa “Unità di Ricognizione dello Stato Maggiore”). Il mio comandante era Yoni Netanyahu, il fratello di Bibi.”

     

    Chi decise l’operazione?

     

    “Fu una responsabilità che si assunsero i massimi vertici dello stato. In quel momento primo ministro era Yitshak Rabin, il ministro della difesa era Shimon Peres. Decisero loro, in caso di fallimento la catastrofe sarebbe stata loro. Fu una scelta difficilissima, perché l’operazione presentava moltissime incognite. Entebbe si trova a oltre 4000 chilometri da Israele, in un posto che nessuno di noi conosceva neanche vagamente. Erano gli anni settanta, pochi israeliani uscivano dal paese, se non per andare magari a fare una visita in Europa. Non sapevamo nulla dell’Africa. Certo, dal punto di vista tecnico liberare una scuola presa dai terroristi in Israele o un terminal a Entebbe non era molto diverso, lo sapevamo fare. Ma il problema era arrivarci.”

     

    Come ci riusciste?

     

    “Furono impiegati quattro aerei da trasporto che ci misero quasi otto ore di volo. Dovevamo volare molto bassi, rasi al suolo, per sfuggire ai radar. C’era anche un tempo terribile, una specie di uragano.  Sulla rotta non avevamo certo degli amici: l’Egitto con cui c’era appena stata la guerra, l’Arabia Saudita, il Sudan. Bisognava evitare che ci vedessero. Era vitale che i terroristi e gli ugandesi non si accorgessero del nostro arrivo, perché, se avessero intuito la possibilità che arrivasse una forza israeliana, avrebbero avuto il tempo di sparare con armi contraeree contro i nostri aerei e comunque di uccidere o spostare gli ostaggi. Io stavo nel primo aereo, quello che doveva compiere l’attacco. Altri due erano dieci minuti dietro, per imbarcare gli ostaggi che avremmo liberato e il quarto con altri commando doveva servire da copertura e forza di riserva, se ci fosse stata battaglia. Avevamo pochissimi minuti per uccidere i terroristi, far fuggire i loro alleati ugandesi, liberare gli ostaggi e ripartire, prima che l’esercito ugandese organizzasse una controffensiva e magari ci abbattesse al decollo. Dal nostro aereo abbiamo sbarcato tre macchine, una Mercedes in testa per confondere le idee e due Land Rover. Io ero sulla prima jeep. Ci fu un errore, suscitammo i sospetti delle sentinelle ugandesi e ci fu subito uno scontro a fuoco con loro. E’ qui che colpirono da dietro Yoni Netanyahu, proprio accanto a me. Avevamo un medico con noi, ma non era possibile salvarlo. Lo vedemmo cadere, ma non abbiamo saputo della sua morte se non in volo. Noi andammo avanti subito senza il nostro comandante: eravamo molto bene allenati e decisi, non ci furono esitazioni o ritardi. In otto minuti prendemmo il terminal e liberammo gli ostaggi e l’equipaggio: il comandante, con un gesto da vero ufficiale, aveva rifiutato di separarsi da loro. Nel frattempo erano arrivati gli altri e bisognava subito ripartire. L’ultimo aereo decollò da Entebbe novanta  minuti dopo il nostro arrivo. Rifornimmo di carburante gli aerei a Nairobi e facemmo ritorno in Israele il giorno dopo con gli ostaggi. Fu un trionfo, ma senza il nostro comandante.

     

    Com’era Yoni Netanyahu?

     

    “Era un uomo straordinario, al tempo stesso un grande soldato e un intellettuale, con convinzioni profonde e idee personali. Quando c’era una pausa, un momento di riposo, apriva sempre qualche libro. Ma io ero un giovanissimo ufficiale, avevo poco più di vent’anni, e lui era il mio comandante.  Lo stimavo moltissimo, lo seguivo dove ci portava; ma naturalmente c’era una distanza, non solo di grado ma anche d’età”.

     

    C’è una morale nella storia di Entebbe?

     

    “Sì, mai arrendersi al terrorismo, mai farsi fermare dalle difficoltà tecniche, avere il coraggio di fare quel che si deve.”

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