Altri missili, centinaia e centinaia, tirati su obiettivi civili di Israele, soprattutto sulle città del centro, sull’aeroporto, sulla fascia di villaggi e cittadine intorno a Gaza, su Beer Sheva. Altre intercettazioni di Iron Dome, che hanno bloccato la grande maggioranza di questi tentativi di strage. Altri civili israeliani morti, pochi per fortuna; ma ognuno di loro è la vittima di un omicidio cinico e ributtante – e un lutto per l’intero paese. Altre notti in bianco nei rifugi per centinaia di migliaia di persone. Altre scene di terrore di massa che l’Europa ha conosciuto solo ottant’anni fa, durante la seconda guerra mondiale e l’America mai. Ma anche altre centinaia di missioni dell’aviazione israeliana. Essa continua sistematicamente a distruggere l’infrastruttura terrorista che è la base di questa attività criminale oggi e permetterebbe di ripeterla in futuro: non solo i lanciarazzi difficili da colpire perché mobili e blindati, ma i numerosi tunnel d’attacco e di ricovero scavati sotto case, scuole, moschee e ospedali – qualcuno ne parla come della metropolitana di Gaza, tanto sono lunghi e intricati. E poi fabbriche d’armi, centri di comando e controllo, singoli quadri terroristi, sedi di attività di informazione e di governo. Sempre facendo attenzione a non colpire la popolazione civile, ad avvertire quando i bombardamenti riguardano case d’abitazione e luoghi di aggregazione, in tempo per consentirne lo sgombero.
Sembra che la guerra sia immobilizzata in una logica ripetitiva. Ma non è così. Salvo incidenti sempre possibili, il tempo lavora per Israele. Le sue forze armate stanno facendo due cose fondamentali, che hanno bisogno di tempo per realizzarsi. La prima è mostrare il fallimento della tattica terroristica di Hamas e della Jihad Islamica. Tirano migliaia di missili, cercano di bombardare le città, di danneggiare la vita degli israeliani, di terrorizzarli. Usano missili nuovi, li sparano a raffica per superare col numero le capacità di intercettazione di Iron Dome. Ma non ci riescono. Fanno danni, uccidono, feriscono. Ma non bloccano il paese, non gettano la popolazione nel terrore. Anche gli incidenti dovuti ai loro sostenitori fra gli arabi israeliani sono progressivamente messi sotto controllo e bloccati dalla polizia. Nel tempo si mostra l’impotenza dell’azione terroristica. E se non è possibile eliminare i terroristi perché troppo annidati nella popolazione, mostrarne l’impotenza segna comunque la vittoria.
Bisogna ammetterlo, all’inizio Hamas ha preso Israele di sorpresa. Nessuno si aspettava questo tipo di attacco, a sette anni dalla guerra del 2014. Disordini sì, ma la guerra vera e propria non sembrava possibile. Per questo l’impatto iniziale è stato devastante. Ma la popolazione di Israele sa reagire con forza e l’esercito in questi anni non è stato certo immobile, ha molto migliorato i suoi mezzi e la sua preparazione. Lo stesso Iron Dome ha appena subito un miglioramento tecnico (soprattutto nel software), che gli ha permesso di elevare la sua efficienza. Ieri ha eliminato anche il suo primo drone suicida partito da Gaza. Certo, le forze armate di Israele non lavorano più con i colpi di genio e di coraggio estremo come ai tempi in cui comandanti come Moshé Dayan e Ariel Sharon compivano miracoli tattici. Oggi prevale l’azione sistematica, programmata, coordinata. Da un certo punto di vista è una guerra lenta, come un’opera di ingegneria. La logistica del nemico, cioè la sua capacità di costruire armi, rifornirle e spararle, è l’obiettivo principale. E questa è la seconda cosa fondamentale che sta facendo l’esercito: smontare fino alle fondamenta l’apparato militare terrorista. Per questo c’è bisogno di tempo, bisogna colpire migliaia di obiettivi, distinguere i colpi che sono andati a segno da quelli che hanno preso solo i falsi obiettivi costruiti da Hamas proprio per confondere e diluire l’azione. È un gioco di pazienza, di precisione, di tecnologia informatica. E Israele, per quel che ne capiamo, sta giocandolo bene, con successo non vistoso ma sistematico.
Il tempo lavora per Israele. Hamas ha già sparato in quattro giorni la metà dei missili che nel 2014 aveva tirati in quaranta. Ci sono certamente ancora molte migliaia di razzi e proiettili meno potenti, ma le sue armi migliori, quelle che sono capaci di portare bombe micidiali oltre Tel Aviv e fino a Eilat, sono abbastanza poche, grazie anche all’attenzione del blocco intorno alla striscia, che in questi anni ha impedito non solo il passaggio di armi ma anche di buona parte dei materiali “dual use”, cioè che possono essere usati per costruirle. È molto probabile che i terroristi si tengano di riserva alcuni proiettili più potenti e che possano fare ancora molto male. Ma progressivamente finiranno a corto di munizioni. Questo sarà il momento in cui accentueranno i tentativi di ottenere una tregua, cui Israele prima o poi dovrà acconsentire, anche per non dar spazio alla propaganda antisemita, ai soliti piagnistei su Gaza prigione a cielo aperto perseguitata dai cattivi sionisti. La tregua è già stata richiesta da Putin, dall’Onu, dall’Egitto; presto verrà la volta degli Usa. E Israele sarà costretto a fermarsi, come sempre, proprio nel momento della vittoria. È un gioco diplomatico che per fortuna viene gestito da un leader esperto e prestigioso come Netanyahu e non da un novizio. Ma l’esercito dovrà aver compiuto in quel momento la più gran parte possibile del suo lavoro di demolizione. Il tempo lavora per Israele, ma diventerà sempre più scarso, quanto più i terroristi si indeboliranno. Questa guerra è anche una corsa contro il tempo.