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    Israele, Hamas e la bocca della tigre

    In una conversazione con Mario Sechi, ho chiesto al direttore dell’Agi di scrivere per Shalom un’analisi dei fatti che in queste ore mettono alla prova lo Stato d’Israele, e di spiegare il ruolo degli attori principali dell’escalation.

    Ariela Piattelli

     

    Cara Piattelli, 

     

    le note sul mio taccuino in queste ore s’accumulano senza sosta. Dormo poco, non sento le sirene squarciare l’aria della notte, non ho la minaccia della morte che volteggia come un avvoltoio sulla mia testa e quella dei miei figli. Sono fortunato. Ma da giorni c’è qualcosa che mi sussurra di stare vigile perché questo conflitto non è come gli altri. Comunque vada, è un punto di non ritorno. Sento un’inquietudine aleggiare come una rondine che è nel mirino di un predatore, tambureggia il presagio di un indefinito destino, qualcosa mi dice che questa volta la storia sta scrivendo un capitolo che cela un significato diverso.

     

    Hamas ha scatenato il conflitto, l’ha cercato – la sua ragione d’esistere è la guerra – aveva preparato tutto per innescare il caos nel Giorno di Gerusalemme. E ha colpito. Il suo arsenale dopo anni di campagne militari, di risoluzioni dell’Onu, di dichiarazioni di pace, di “due popoli e due Stati”, è intatto. È più forte, più evoluto, più preciso. Il braccio armato di Hamas (e mentre lo scrivo mi chiedo se ne esista davvero uno che sia “politico”) ha affinato le tecniche della guerra: lancia i razzi a grappolo e così buca lo scudo anti-missile Iron Dome; ha droni e razzi anticarro di cui si serve per tendere agguati; i cecchini si appostano per ammazzare perfino i soccorritori dei feriti; il numero esorbitante di lanci è la spia di una strategia che usa lo strumento militare per raggiungere un obiettivo politico (conoscono la dottrina di Carl von Clausewitz meglio di quanto si immagini), l’idea di Hamas è quella di capitalizzare politicamente una guerra-lampo, colpire e ritirarsi, tendere trappole sul terreno per aumentare il numero di “danni collaterali” da far pendere sul capo di Israele, uccidere e dichiararsi pronti a un cessate il fuoco, usare lo smarrimento dell’Occidente per indebolire l’appoggio allo Stato ebraico, isolare l’unica democrazia presente in Medio Oriente e continuare a guadagnare tempo in favore di chi sta costruendo un arsenale più letale (e definitivo), fare il doppio e triplo gioco usando come sponda da biliardo autocrazie e dittature (la Russia, come tradizione della sua diplomazia, si è subito infilata nell’incertezza dell’amministrazione Biden e guarda caso lo fa in tandem con la Turchia), perseguire una condotta della distrazione di massa che ha un solo scopo, moltiplicare il gioco di fumo e specchi che serve a celare lo sviluppo dell’arma di distruzione di massa, circondare Israele fino a farlo capitolare in un futuro non troppo lontano che l’Occidente non vede perché colto dalla febbre alta dell’appeasement.

     

    Sempre minacciato, in perenne stato di mobilitazione, Israele è un caso eccezionale di cui l’Europa fatica a vedere il paesaggio perché al contrario del Vecchio Continente continua a essere giovane e capace di riprodurre i propri valori. Un paese con un alto tasso di nascite sconosciute all’Occidente congelato nel permafrost dell’inverno demografico, uno sviluppo economico che ha saputo coniugare la tradizione con l’innovazione tecnologica, un’intelligenza che trova espressione da sempre in tutte le arti e oggi ha fatto emergere un immaginario popolare nell’industria della fiction, il più importante veicolo di cultura dell’era contemporanea. Israele non vive nel passato, abita nel domani.

     

    Quando il governo israeliano ha acquistato i vaccini e immunizzato la popolazione, in Europa sono emersi due sentimenti: l’ammirazione e l’invidia. L’ammirazione si è diffusa tra chi ha colto il punto fondamentale di uno Stato dove l’ordine e la cultura della Difesa sono un pilastro non per attaccare qualcuno, ma per tutelare la vita; l’invidia è quella di coloro che non avendo più alcun ordine (e Dio), è avviluppato nella burocrazia senza democrazia, punta l’indice su Israele accusandolo di egoismo, di fare incetta di vaccini, di non considerare il bene comune. 

     

    Sono accuse che gli ebrei e gli amici di Israele (ri)conoscono, hanno il suono sinistro di certe frasi del passato che riaffiorano nel presente. Sul taccuino del cronista ci sono alcune domande che attendono i fatti, la risposta della storia che si fa (e disfa) davanti a noi.

     

    Prima domanda: questo conflitto sfocerà in un intervento di terra dell’esercito israeliano a Gaza? 

     

    Siamo a un passo dal possibile, nel gioco dello “show of force” i vertici militari hanno detto che l’opzione è sul tavolo, ma per mettere “boots on the ground”, gli stivali sul terreno, occorre uno scopo politico ben definito e questo in realtà per ora non è chiaro. Dipende dall’obiettivo che ha in mente il governo israeliano, siamo di fronte all’opera in fieri della guerra.

     

    Seconda domanda: qual è l’obiettivo del premier Benjamin Netanyahu?

     

    Bella domanda, qui entriamo in un dedalo di possibilità, porte aperte e cancelli chiusi. Le porte aperte sono quelle della strategia del “tagliare l’erba”, cioè inquadrare l’operazione “Guardiani delle mura” in una missione di tipo “periodico” – innescata da una pioggia di razzi, ricordiamolo – che diventa un’operazione di “search and destroy”, serve cioè a eliminare infrastrutture e alcuni elementi di vertice di Hamas (cosa avvenuta), indebolirne la capacità operativa e fine della puntata con rinvio alla prossima della serie. E i cancelli chiusi quali sono? Quelli che si possono spalancare, un conflitto largo, dove entrano in campo i carri, la copertura aerea e dell’artiglieria durante l’avanzata, una grandinata di missili e incursioni rapide di truppe speciali su obiettivi strategici, per dare un colpo più profondo a Hamas e provocare una crisi politica a Gaza. Possibile? Tutto lo è, siamo in una terra incognita, ma Israele deve segnare sulla lavagna due fattori e tenerli bene a mente: il primo è che può perdere molti soldati perché Hamas è un gruppo ben armato (“abbiamo molte altre sorprese” ha fatto sapere stamattina il portavoce), un clan spietato che non segue le regole della guerra classica (hanno sparato perfino sui soccorritori dei feriti dal missile anti-carro che ieri ha ucciso il sergente maggiore Omer Tabib, 21 anni); il secondo fattore da ricordare è che dopo Hamas nessuno sa esattamente cosa potrebbe arrivare (e al peggio non c’è mai limite), non c’è un quadro chiaro del regime change. Una volta avviato il gioco sulla scacchiera, le pedine acquistano velocità e si muovono fuori dallo schema che finora è stato seguito. Serve un piano, Netanyahu ne ha uno di lungo termine? Sta “tagliando l’erba”, ma non sappiamo se pianterà alberi.

     

    Terza domanda: il quadro politico israeliano è favorevole? 

     

    Non è in discussione il sostegno alla risposta armata contro Hamas, ma Netanyahu è nella posizione di uno strano Commander in Chief che è in piena guerra mentre il suo paese è alla ricerca di un governo dopo che lui, proprio lui, non è riuscito a mettere insieme una maggioranza. Il conflitto può cementare un nuovo governo a presa rapida? O favorire l’eterno Bibi? Quello che accadrà nei prossimi giorni sul campo di battaglia avrà un effetto sul quadro politico.

     

    Quarta domanda: chi vince? 

     

    In questo momento sta vincendo Hamas, per la semplice ragione che una sua sconfitta corrisponde a un solo evento, la sua caduta. Tutto il resto, nello sfacelo per i palestinesi, a Hamas torna utile. Per cadere dovrebbe essere completamente abbandonato al suo destino dai paesi arabi, cosa meno remota di un tempo, ma sempre molto difficile. Inoltre, il tiepido sostegno dato (per ora) dalle grandi potenze alla reazione militare di Israele, svanirebbe di fronte a un intervento più esteso, le cancellerie internazionali non hanno leader temprati dalla guerra, sono fatti per la pace, la pandemia li ha messi alla prova e non hanno certo brillato. Servirebbe una grande cooperazione internazionale per isolare i terroristi, perché Israele non può assumersi da solo il ruolo di “liberare” i palestinesi dal giogo di Hamas.  

     

    Quinta domanda: quanto tempo ha a disposizione Israele? 

     

    Abbiamo visto che ci sono molti limiti nell’hardware e nel software di questa vicenda, ma i fatti galoppano. Anche stamattina da Gaza sono piovuti razzi su Tel Aviv, Gerusalemme e le città al confine meridionale con la Striscia, un nuovo tipo di razzo con un raggio di 220 chilometri è stato lanciato sull’aeroporto di Eilat. Sono pessimi segnali e Hamas confida nel fatto che tutti gli elementi che abbiamo qui elencato giochino sempre a suo favore, può lanciare razzi e con questi acquista i mesi che servono (soprattutto ai suoi alleati, vedere alla voce Iran) per provare a demolire un quadro geopolitico che con gli Accordi di Abramo è cambiato nettamente in favore di Israele. Primo comandamento di Hamas: perdere tempo per prendere tempo. Può darsi che il copione si ripeta, che anche questa volta Israele si accontenti di “tagliare l’erba”, ma in ogni caso questo conflitto – breve o lungo che sia – è destinato a segnare una svolta, un non detto che però è visibile. Se è (im)possibile eliminare Hamas, allora significa che qualcuno pensa che sia invece (im)possibile in futuro spazzare via Israele. Questo è il punto dal quale (forse) non si può più tornare indietro, c’è un problema che corre, il tempo. 

     

    Sesta domanda: un accordo per la fine delle ostilità è vicino? 

     

    L’esito sarà quello, ma non è detto che arrivi in fretta. Cessare il fuoco fa risparmiare proiettili e vite oggi, ma sulla convenienza per il domani non c’è da farci troppo affidamento. Chi pensa al compromesso con Hamas, immagina che lo scorrere delle lancette dell’orologio in fondo non favorisca la costruzione di scenari contro Israele, dia tempo alla trama e all’ordito della pace, ma non dà il giusto peso al quadro geopolitico, all’infiammabile transizione interna americana, all’attivismo della Russia e della Turchia nel quadrante del Mediterraneo Orientale, all’interesse (in)diretto della Cina a mantenere una situazione instabile al punto da “distrarre” ulteriormente gli americani e favorire l’ascesa di Pechino nel ruolo di prima potenza economica mondiale, alla grande partita del gas, materia prima fondamentale nella transizione energetica. Hamas in questo caso è solo uno strumento e il popolo palestinese una pedina il cui tragico destino interessa ben poco chi ha in mente il dominio della regione più ricca d’energia del pianeta. Siamo in un mondo che sta mostrando l’accelerazione e compressione del nuovo ordine del coronavirus. 

     

    Torniamo dunque alla casella di partenza di questo gioco, alla settima e ultima domanda: affondare il colpo o frenare, mettersi d’accordo con Hamas, in attesa del prossimo inevitabile lancio di razzi?

     

    Rispondo con un flash di libri di storia, una nuvola di fumo e il suono di una cinepresa. Il compromesso in politica è una nobile arte, finché non diventa una resa. La storia è maestra, ma la lezione è regolarmente dimenticata. Nel film “L’ora più buia”, Winston Churchill a chi nel governo gli chiedeva di trattare con Adolf Hitler rispose: “Non si può ragionare con la tigre quando hai la tua testa nella sua bocca”. Hamas è la tigre, la testa rischia di essere la nostra.

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