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    Il governo israeliano perde la maggioranza. Tutto quel che bisogna sapere per comprendere la crisi

    Le premesse 

    Il trentanovesimo governo di Israele (in 73 anni) presieduto da Naftali Bennett sembra decisamente entrato nella fase dell’agonia. Formato meno di un anno fa da forze dei più diversi orientamenti (la destra di Bennett, il centrodestra di Liberman e Sa’ar; il centro di Gantz, il centrosinistra di Lapid e dei laburisti, l’estrema sinistra di Meretz, gli arabi islamisti di Ra’am) uniti solo dal fatto di non volere più Bibi Netanyahu come primo ministro, aveva in partenza una maggioranza debolissima (61 voti sui 120 seggi della Knesset, il parlamento monocamerale israeliano). I dissensi programmatici erano enormi dall’inizio e quindi si era stabilito che il governo non avrebbe adottato nessuna politica se non quelle faticosamente negoziate e scritte nel patto di coalizione e che poi ogni ministro si sarebbe regolato a modo suo nei temi di sua competenza. Per premiare il suo distacco dalla coalizione di Netanyahu, Bennett era stato nominato primo ministro anche se il suo partito era uno dei più deboli della maggioranza, con soli sette seggi. L’accordo era che a metà legislatura (alla fine del prossimo anno), la presidenza sarebbe passata a Lapid, che presiede il maggior partito della coalizione con 17 seggi (non il più grande partito della Knesset, che resta quello di Netanyahu con 30)


    I contrasti programmatici    

    Nei mesi del governo i dissensi hanno scosso spesso la coalizione, sulle politiche e sulle opinioni. Per la parte destra della coalizione, il governo attuava politiche di estrema sinistra su temi delicatissimi come i villaggi illegali dei beduini nel Negev, la riforma delle istituzioni religiose, gli insediamenti oltre la linea verde; per la sinistra, faceva politiche di destra su temi come il Monte del Tempio e la difesa. Chi ha ottenuto i risultati più cospicui, anche se è stato molto attaccato dalla sua parte, è il leader arabo islamista Abbas, che con le minacce e le lusinghe ha conquistato soldi ed eccezioni legislative soprattutto per gli arabi di Negev e Galilea. Ma questi prezzi pagati a un partito determinante per la coalizione, che ha spesso minacciato di abbandonarla, hanno suscitato le preoccupazioni perfino di un leader centrista come il ministro della difesa Gantz, che ha fatto uscire qualche giorno fa un suo discorso al gruppo parlamentare in cui diceva che andando avanti così l’Israele ebraica rischiava di limitarsi al centro del paese, lasciando agli arabi la Galilea e il Negev.

     

    I costi della confusione programmatica

    Questo conflitto fra ideologie e interessi contrastanti si è tradotto non solo in un’opera costante e defatigante da parte di Bennett e Lapid. Il suo costo si è esteso a una perdita di consensi che nei sondaggi ha punito soprattutto la parte destra della coalizione, con i partiti di Bennett e di Sa’ar che rischiano di non superare la barriera del 3,5% necessaria per entrare alla Knessett. Ci sono state contestazioni durissime soprattutto a Bennett, che per esempio l’altro giorno, quando è andato a portare le sue condoglianze alla famiglia di Noam Raz, il militare delle unità speciali antiterrorismo caduto a Jenin, è stato rimproverato e sostanzialmente respinto.

     

    I parlamentari fuoriusciti

    Questa tensione però si è tradotta anche fra i parlamentari che sostengono la coalizione. Si è parlato spesso di un possibile abbandono in blocco di qualche partito, per esempio quello di Gantz. Ma per ora se ne sono andati due dei sette deputati del partito di Bennett, uno, Amichai Chikli dichiarato ufficialmente “transfuga”, che significa non potersi ripresentare alle prossime elezioni; l’altra, Idit Silman, già capogruppo della maggioranza alla Knesset, espulsa l’altro giorno dalla riunione del gruppo parlamentare del partito. Dato che un terzo deputato vacillava, Bennett ha fatto dimettere un suo ministro chiave, Matan Kahana, per fargli riprendere il suo seggio alla Knesset ed estromettere così, secondo la legge israeliana, il suo sostituto esitante: una perdita comunque notevole, perché la riforma degli ordinamenti religiosi di Kahana era un punto chiave del programma. Tutto ciò non è servito molto, perché a queste uscite da destra se n’è aggiunta una a sinistra: la deputata Rinawie Zoabi della sinistra di Meretz è uscita ieri dalla coalizione perché non sopporta le sue politiche “di estrema destra”, perfino “razziste”. Anche a lei era stata offerta un’uscita morbida, promettendole la nomina a console generale di Shangai, ma non ha accettato questo mercato piuttosto disonorevole e ha preferito prendere le conseguenze politiche del suo dissenso. E a questo punto il governo è ufficialmente in minoranza alla Knesset.


    Che cosa accadrà

    La legge israeliana cerca di mantenere i governi in vita anche in condizioni difficili. La minoranza in Parlamento non basta a far cadere un governo. È possibile quindi che il governo Bennett continui ad agonizzare per altri sei mesi, fino a quando sarà discussa la legge di bilancio, la cui non approvazione comporta automaticamente lo scioglimento della Knesset. Naturalmente, nel frattempo, non potrebbe più far approvare le sue leggi, resterebbe quasi paralizzato. Oppure il parlamento può approvare una legge di autoscioglimento, e andare alle elezioni in autunno. O ancora è possibile una mozione di sfiducia costruttiva, che indicando un nuovo primo ministro gli dia il mandato per costituire un nuovo governo. Quest’ultima è la soluzione più improbabile, perché l’opposizione è in maggioranza, sì, ma divisa in due blocchi: un partito arabo e l’alleanza intorno a Netanyahu. Perché prevalesse, ci vorrebbe il sostegno di un numero abbastanza consistente di deputati dell’attuale maggioranza, almeno sette. È probabile quindi che si arrivi a nuove elezioni, le quarte in meno di quattro anni: un segno del difficile funzionamento di un sistema politico che oltre alla polarizzazione destra-sinistra sui programmi e a quella nazionale è anche profondamente diviso sulla leadership di Netanyahu, il politico più importante di Israele negli ultimi decenni, ancora preferito di gran lunga dall’elettorato, ma che si è accumulato intorno accuse e odio più di ogni altro.


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