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    I risultati elettorali sanciscono la vittoria di Netanyahu

    Come si è arrivati al risultato

    Il consueto saliscendi dei risultati elettorali fra gli exit poll e durante il conteggio dei voti non ha modificato l’esito politico delle elezioni israeliane. Alla quinta consultazione in quattro anni sembra risolto il lungo braccio di ferro fra Bibi Netanyahu e chi voleva ad ogni costo estrometterlo dal governo: i partiti arabi, la sinistra estremista o moderata, pezzi di destra (Liberman, Sa’ar, Bennett) insofferente della sua leadership. Le ultime quattro elezioni non avevano prodotto un risultato certo, facendo sì che Israele fosse governato per tutto questo periodo da governi in proroga con poteri limitati. L’eccezione è stato il governo Bennett che è durato per poco meno di un anno fino a giugno scorso, ma si trattava di una maggioranza eterogenea, che non ha retto alle divergenze fra i partiti della coalizione. Ora sembra proprio che Bibi Netanyahu ce l’abbia fatta un’altra volta. Gli exit poll pubblicati subito dopo la chiusura delle urne davano al Likud un risultato buono ma non entusiasmante (30 seggi su 120 della Knesset) e alla sua coalizione appena la maggioranza (61/62 seggi), soprattutto grazie all’exploit dei sionisti religiosi (Smotrich e Ben Gvir). 

     Gli schieramenti

    I risultati reali, pubblicati via via dalla commissione elettorale, segnano una vittoria molto più ampia. Con quasi il 90% dei voti contati, al Likud vanno 31 seggi, sempre 14 ai sionisti religiosi, 12 seggi al partito sefardita religioso Shaas, 8 agli askenaziti, per un totale alla coalizione di Bibi di 65 seggi sui 120 della Knesset. A Lapid erano assegnati 24 seggi, 12 a Gantz, 5 a Liberman e altrettanti al partito arabo Ra’am parte della precedente coalizione, 4 ai Laburisti, per un totale di 50 seggi. Alla lista araba unita, che non partecipa alle coalizioni della Knesset, sono attribuiti 4 seggi. Per qualche migliaio di voti non passano la barriera di ingresso il partito di estrema sinistra Meretz e la lista araba vicina al terrorismo Balad.  Queste esclusioni sono determinanti per la notevole vittoria di Netanyahu; se questi partiti che sono appena sotto il limite del 3,25% necessario per entrare alla Knesset recuperassero con gli ultimi voti da contare quel che manca loro per superare la barriera, si avrebbe ancora una maggioranza di destra, che è tale anche in termini di percentuali dei votanti e non solo di seggi, ma più limitata. La certezza del risultato si potrà avere solo questa sera, quando saranno stati contati e verificati tutti i voti.

     La nuova maggioranza

    Quella che si profila con sempre maggiore certezza è però una coalizione di nuovo guidata da Bibi Netanyahu, in cui avranno molto peso i leader del sionismo religioso e dei partiti che esprimono le opinioni e il modo di vita dei charedim (i “timorati” del Cielo), che la stampa usa chiamare con un termine assai impreciso “ultraortodossi”. Non è dunque solo una scelta sulla persona di Netanyahu, ma sulla definizione di Israele come stato della nazione ebraica. Sia dall’interno di Israele che da parte dell’amministrazione Biden ci sono stati appelli a Netanyahu perché scarichi i suoi alleati di destra, troppo estremisti secondo queste opinioni, per cercare un accordo con Lapid e con Gantz. Ma è difficile che accada, innanzitutto perché i leader della vecchia coalizione hanno promesso ufficialmente all’elettorato di non cercare nessun compromesso con Netanyahu, ma anche perché i veri vincitori della tornata elettorale sono i sionisti religiosi e non sarebbe facile né gradito all’elettorato escluderli. Di più, l’esperienza dice che l’alleanza fra Likud e sinistra anche moderata non funziona, perché sono assai diversi i programmi e le ideologie, come ha mostrato l’effimero tentativo di un governo di alternanza fra Netanyahu e Gantz, due anni fa.

     Una scelta di fondo

    La scelta dell’elettorato non riguarda solo la persona del primo ministro, per cui nei sondaggi l’esperienza di Netanyahu ha sempre riscosso un appoggio molto più ampio dei suoi concorrenti, ma anche l’asse politico dell’azione governativa. È prevalsa l’idea di uno stato naturalmente democratico, in cui tutte le religioni e le etnie hanno cittadinanza, ma che rivendica il proprio ebraismo e lo difende; che non ha paura di dissentire dal proprio principale alleato, gli Usa, quando non ne condivide l’orientamento strategico, come nel caso dell’Iran; che affronta con forza i nemici interni (il terrorismo) e quelli esterni. Come sempre la politica viaggia con l’azione delle persone: saranno le trattative per la formazione del governo e l’assegnazione dei ministeri a decidere quale sarà esattamente il volto nuovo di Israele, dopo questi anni di crisi.

     

     

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