L’annuncio delle dimissioni
In un colpo di scena da tempo annunciato, ieri sera si sono dimessi dal governo israeliano i due ministri senza portafoglio del partito di “Unità Nazionale” (HaMaḥane HaMamlakhti ) Benny Gantz e Gadi Eisenkot, ex capi di stato maggiore delle forze armate e membri del gabinetto di guerra. L’annuncio doveva essere fatto sabato sera, quando scadeva un ultimatum di Gantz a Netanyahu, ma è stato posposto a ieri in seguito alla liberazione degli ostaggi. L’appello di Netanyahu a non lasciare il governo in questo momento critico è rimasto inascoltato e le dimissioni sono state annunciate comunque, con la richiesta di far svolgere al più presto elezioni straordinarie. Il governo non cade per questo, perché conserva una maggioranza parlamentare di 64 seggi su 120, che nella politica israeliana è normale.
Il quadro politico
Ganz e Eisenkot erano entrati nel governo qualche giorno dopo il 7 ottobre senza condividerne il programma generale, solo per partecipare allo sforzo bellico, secondo un modello tradizionale di unità nazionale. Altri leader, come Yair Lapid e Avigdor Liberman non erano entrati o avevano posto condizioni che Netanuahu aveva giudicato inaccettabili; ora approvano la decisione di “Unità nazionale” e la sua richiesta di elezioni, che pure in tempo di guerra sarebbero difficili da tenere e molto devastanti sul piano politico. Va detto che i sondaggi di tutti questi mesi avevano premiato lo spirito unitario di Gantz con una forte crescita che ne faceva virtualmente il primo partito, mentre Lapid arretrava (come del resto il Likud di Netanyahu). Questo capitale politico accumulato con una scelta giudicata dall’elettorato come patriottica e costruttiva ora probabilmente rischia di erodersi.
Che cosa vuole Gantz
È difficile che la mossa di Gantz abbia effetti immediati sul piano parlamentare. È una presa di posizione politica e non un rovesciamento delle alleanze. Bisogna chiedersene dunque la ragione e gli effetti. Il piano di Gantz formulato a metà del mese scorso comprendeva sei punti. Quasi tutti erano condivisibili dalla maggioranza, come la liberazione degli ostaggi e la sconfitta di Hamas, ma il punto critico era la definizione di un assetto per Gaza dopo la guerra che escludesse immediatamente la presenza israeliana, secondo il progetto degli Usa. In sostanza, Gantz sosteneva il piano americano di trattative immediate con Hamas, cessate il fuoco con uscita dell’esercito israeliano da Gaza, amministrazione delle Striscia con coinvolgimento di forze arabe e palestinesi (auspicabilmente per l’amministrazione Biden una “Autorità Palestinese rinnovata”) e senza la presenza di forze israeliane, in cambio della normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita. Netanyahu ritiene invece che non si possa fermare la guerra ora se non per tregue momentanee allo scopo di scambiare i rapiti israeliani con detenuti terroristi e che non sia possibile prendere impegni così anticipati sullo stato di Gaza dopo la guerra, che secondo lui dovrà comunque essere controllata dall’esercito israeliano per un certo periodo.
Pressioni americane
Le dimissioni di Gantz sono dunque la conseguenza delle crescenti tensioni fra il governo di Netanyahu deciso a continuare la guerra fino alla vittoria, e a mantenere il diritto di intervento a Gaza per evitare la riorganizzazione del terrorismo e l’amministrazione americana, il cui scopo (certamente dovuto alle necessità della propaganda elettorale, ma corrispondente anche a scelte ideologiche che risalgono ai tempi di Obama) è invece la cessazione veloce delle ostilità anche al costo di non eliminare completamente le forze e i dirigenti terroristi e il rafforzamento dell’Autorità Palestinese, benché corrotta e complice del terrorismo. È uno scontro grave, che rende difficili le relazioni fra i due paesi. Per fare solo un esempio, oggi è uscita sui giornali israeliani la notizia che, alla vigilia dell’ennesima visita del segretario di Stato Blinken, un alto funzionario dell’amministrazione Biden ha dichiarato a NBC News che l’operazione israeliana che ha salvato quattro ostaggi sabato probabilmente complicherà gli sforzi del Segretario di Stato per raggiungere un accordo di cessate il fuoco. Secondo il funzionario, il successo dell’operazione ha rafforzato la determinazione del primo ministro Netanyahu a continuare le operazioni militari, piuttosto che accettare un cessate il fuoco, rafforzando allo stesso tempo la posizione della leadership di Hamas.
Il problema del rapporto con Biden
Insomma, probabilmente le dimissioni di Gantz vanno lette come una candidatura a formare in futuro un governo più vicino al progetto americano per il Medio Oriente. Il governo Netanyahu non si indebolisce sul piano interno, anzi probabilmente acquista compattezza e velocità di decisione, ma certamente sarà più esposto alle pressioni americane, che in questi mesi si sono anche tradotte in gesti molto gravi, come il rifiuto di consegnare i rifornimenti militari concordati e approvati dal Congresso. Questo è un tema molto grave e importante, non tanto per Gaza, dove Israele ha tutti i mezzi per proseguire la sua caccia ai terroristi e il lavoro per liberare gli ostaggi, ma per il conflitto con Hezbollah, che continua a crescere e ormai nei prossimi giorni rischia di diventare guerra di terra.