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    Un ricordo che non sbiadisce

    Ogni ebreo è partecipe dei lutti e delle persecuzioni, a prescindere dalla distanza storica e geografica

     

    Il trascorrere del tempo solitamente riduce la forza con la quale i ricordi, anche i più dolorosi, si impongono alla memoria. Si dice, infatti, che sia proprio e solo lo scorrere degli anni che possa lenire il dolore conseguente ad un evento luttuoso, anche se, al contrario, negli ebrei riscontriamo la tendenza a contrapporsi a questa inclinazione naturale. L’obbligo, ce lo ribadisce la tradizione, deve essere quello di ricordare arrivando a identificarci profondamente con quanto rievochiamo: “Zakhor”, “Ricorda”, sentenziano i testi stabilendo un legame indissolubile tra il presente e il proprio passato, nonché con quelle radici che rappresentano il terreno comune che fonda un’identità collettiva trascendente i confini geografici come quelli temporali. Ciò vuol dire che nella commemorazione di un medesimo fatto appartenente alla storia ebraica un ebreo polacco, come un ebreo sefardita, si identificheranno nello stesso vissuto, sentendo come propria sia la ferita conseguente al pogrom nello shtetl che quella dovuta ai roghi dell’inquisizione. Ogni ebreo, io credo, tende a sentirsi coinvolto e partecipe in prima persona nei singoli episodi che hanno caratterizzato una storia millenaria di persecuzioni, vivendo come intimamente propri lutti che appartengono a realtà distanti, sia geograficamente che cronologicamente. Ecco perché ancora si digiuna per la distruzione del Tempio a duemila anni di distanza ed ecco perché la memoria del 16 ottobre, pur essendo impressa sulla pelle dei romani, appartiene anche a tutti gli altri ebrei in ogni angolo della Terra, così come è anche degli ebrei romani la ferita dovuta al rastrellamento del Velodromo di Parigi o al pogrom del 1945 ai danni della Comunità libica. È con tale prospettiva, quindi, che, come ogni anno, gli ebrei di Roma si ritrovano a commemorare una ferita, quella del 16 ottobre, rinnovando un dolore che è soprattutto proprio, ma anche di tutti gli altri fratelli, nella diaspora ed in Israele, cogliendo l’occasione per riflettere sulla propria storia, sulla propria identità e sulle proprie condizioni, nel tentativo, come è sempre avvenuto, di elaborare pensieri e considerazioni che possano contrastare qualunque ipotesi di banalizzazione o di sterile reiterazione della celebrazione con il rischio di scadere nella retorica. Allora si impone l’interrogativo su cosa di nuovo si possa dire o pensare in occasione di una commemorazione il cui ricordo resta vivo e non si indebolisce nonostante siano trascorsi ottant’anni. 

    La voce inedita che riterrei ancora mancante all’appello e che resta fondamentale perché si completi quel processo di elaborazione dell’esperienza storica che, se non sufficiente al superamento del dolore, testimonierebbe almeno che la società civile abbia appreso da quanto avvenuto, è quella dei diretti discendenti dei carnefici, i figli e i nipoti di coloro i quali a diverso titolo hanno partecipato alla persecuzione. Se infatti abbiamo ascoltato negli anni la voce, flebile perché gravata dal dolore, ma nello stesso tempo titanica dei sopravvissuti e dei loro diretti discendenti, se abbiamo ricevuto la solidarietà delle istituzioni, dai Sindaci di Roma e dalle altre importanti cariche, locali e nazionali, non si è ancora udita la condanna forte ed inequivocabile di chi ha partecipato o contribuito alla razzia, da parte dei figli e dei nipoti dei responsabili. Ci chiediamo se e quanti, oggi, a ottant’anni dal rastrellamento, tra i discendenti dei carnefici siano disposti a riconoscere le responsabilità dirette o indirette di chi ha contribuito o preso parte attiva alla persecuzione o quanti purtroppo, al contrario, non siano ancora convinti dell’innocenza del regime o dell’inerzia del Vaticano (Kertzer, 2022) a fronte della deportazione, astenendosi dal condannare esplicitamente per rendere così finalmente possibile l’elaborazione, psicologica, culturale e politica della ferita traumatica inflitta alla popolazione ebraica romana.

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