Skip to main content

SPECIALE PESACH 5784

Scarica il Lunario 5784

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati

    IDEE - PENSIERO EBRAICO

    Parashà di Ki Tissà: Cos’è la libertà

    Quando Moshè scese dal monte dopo la rivelazione del Sinai egli portò con sé le tavole della legge. Nella parashà è scritto: “Moshè si dispose a discendere dal monte, recando in mano le due tavole della testimonianza, tavole scritte dai due lati, scritte sull’una e sull’altra faccia. Queste tavole erano opera divina e i caratteri incisi sulle tavole erano caratteri divini” (Shemòt, 32: 15-16).
    ​Questo versetto è oggetto di interpretazione nei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 6:2). R. Yehoshua’ ben Levi, riferendosi alle parole “inciso sulle tavole”(nel testo “charùt ‘al ha-luchòt”), afferma: “Non leggere charùt (inciso), ma cherùt (libertà), perché l’uomo non è mai così libero come quando si occupa dello studio della Torà”.
    ​R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo commento ai Pirkè Avòt scrive: “Proprio come la Torà ci nobilita, così anche il suo studio veramente devoto ci rende liberi, liberi da errori, liberi dalle tentazioni dei desideri fisici e liberi dall’oppressione della moltitudine di preoccupazioni e tribolazioni della vita di ogni giorno”.
    ​R. Mayer Twersky (Boston, n. 1960) in Insights and Attitudes (p. 124) osserva che il commento dei Maestri a prima vista è sconcertante sia dal punto di vista metodologico sia nella sostanza. Dal punto di vista metodologico perché essi generano artificialmente una derashà cambiando la vocalizzazione di una parola (da charùt e cherùt). Dal punto di vista della sostanza perché apparentemente la Torà con le sue mitzvòt proscrittive (che proibiscono) viene a limitare la libertà e non a darla.
    ​R. Twersky, per risolvere la questione, cerca una definizione della parola libertà. Parafrasando la definizione del dizionario Webster egli scrive: “Superficialmente la libertà implica (entails in inglese) la liberazione dal controllo e dalle richieste di alcune persone o potere”. Sembra quindi ironico che lo studio della Torà venga rappresentato come la via verso la libertà. In verità tuttavia l’autentica libertà non dipende solo dalla liberazione politica, ma principalmente dalla liberazione interna. L’autentica libertà implica libertà dagli istinti e dalle passioni. Una perona che è ostaggio della propria ira, o che non è capace di frenare il suo desiderio del piacere fisico, o che è sempre spinto a cercare onore e ricchezze, potrà esser libero dal punto di vista politico ma conduce una vita da bruto.
    ​Al contrario, una persona che raffina i suoi istinti e le sue passioni e si nobilita, e facendo così si impegna a seguire la volontà divina, è una persona veramente libera. Lo studio della Torà conduce a un’autentica libertà esistenziale in due modi. In primo luogo l’atto di studiare Torà e di assimilare la parola divina, purifica ed eleva lo spirito. Questo vale per ogni parashà della Torà ed ogni argomento del Talmud. Ma è doppiamente vero riguardo ai principi fondamentali dell’ebraismo, il cui studio fornisce un’addizionale consapevolezza di libertà.
    ​R. Shimshon Nachmani (Modena, 1706-1778, Reggio Emilia) nel suo commento ai Pirkè Avòt risolve il dilemma in modo diverso. Chi non si occupa di Torà è servo del suo istinto. E chi si occupa di Torà è ugualmente servo, ma del suo Creatore. Per questo il testo dei Pirkè Avòt continua con le parole “E colui che si occupa di Torà, si eleva”. Nonostante che in un modo nell’altro egli sia un servo, esser servo dell’Eterno è una grande cosa perché, come dice il proverbio, il servo di un re è anche un re.

    CONDIVIDI SU: