Questa parashà descrive la mitzvà data a Moshè di fabbricare due trombe d’argento. Lo scopo delle trombe era molteplice. Il primo motivo per dover disporre di due trombe d’argento è spiegato all’inizio del decimo capitolo dove è scritto: “L’Eterno parlò ancora a Moshè, dicendo: Fatti due trombe d’argento; le farai d’argento battuto; ti serviranno per convocare la comunità e per far partire gli accampamenti” (Bemidbàr, 10: 1-2). Più avanti viene introdotto un secondo motivo per le trombe: “Quando nel vostro paese andrete alla guerra contro il nemico che vi attaccherà, suonerete a lunghi e forti squilli con le trombe, e sarete ricordati dinanzi all’Eterno, al vostro Dio, e sarete salvati dai vostri nemici” (ibid., 9).
Qual era lo scopo di suonare le trombe in caso di guerra? L’autore catalano del Sèfer Ha-Chinùkh (XIII sec.) scrive che nei momenti di crisi (et tzarà) il suono delle trombe serve a concentrarsi nel supplicare l’aiuto divino.
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 72), scrive che riguardo alla tefillà (preghiera) nei momenti di crisi vi è una differenza di opinione tra i nostri grandi maestri. La differenza consiste nel definire l’espressione “et tzarà”.
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) afferma che la tefillà giornaliera è una mitzvà comandata dalla Torà.
Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) afferma invece che l’obbligo di dire la tefillà ogni giorno è di origine rabbinica. È comandato dalla Torà solo nei momenti di crisi, come si impara da questa parashà.
R. Soloveitchik afferma che il Maimonide e il Nachmanide concordano che la tefillà ha significato solo se deriva da una senso di crisi (tzarà). Il Maimonide considerava la vita di ogni giorno una tzarà. Questa tzarà porta una persona sensibile ad avere un “feeling” di disperazione, a un cupo senso di mancanza di significato nella vita, di assurdità e di mancanza di tranquillità. La parola tzarà ha un significato che va al di là delle preoccupazioni che vengono dal di fuori. Questa parola suggerisce una condizione emozionale e intellettuale nella quale l’essere umano vede sè stesso intrappolato in un universo vasto, desolato e senza speranza. Mentre il Nachmanide tratta solo di crisi esterne e di tzarà collettiva, il Maimonide considera tutta la vita una tzarà personale. La tzarà del Nachmanide è una crisi esterna che non dipende dall’essere umano. Emerge dall’ambiente esterno e solitamente appare all’improvviso. La situazione critica è visibile; la sentiamo e la soffriamo ansiosamente. Non è necessario essere introspettivi per percepire questo tipo di crisi. Anche la persona più semplice la percepisce, sia essa causata dalla povertà, da malattie, da fame, da guerra o dalla morte. La profonda tzarà di cui tratta il Maimonide è chiaramente una situazione senza una soluzione. È una realtà esistenziale, una condizione dell’esistenza umana.
Un simile messaggio viene da ‘Olàt Reayà (p.13) l’opera che contiene gli insegnamenti di rav Avraham Yitzchak Kook (Griva-Lettonia, 1865-1935, Gerusalemme) sulla tefillà: “Per noi e per tutto il mondo, la tefillà è una totale necessità […]. Desideriamo da noi stessi e dal mondo una perfezione che la ristretta realtà non ci può dare. E per questo ci troviamo in una grande crisi (tzarà ghedolà), la cui sofferenza ci può far perdere la testa e perdere l’attaccamento al Creatore. Ma prima che questo ostacolo possa concretizzarsi in noi, abbiamo la tefillà. In essa noi versiamo le nostre parole e ci eleviamo verso un mondo di una realtà perfetta. Così il nostro mondo interiore diventa anch’esso perfetto e troviamo la tranquillità”.