Nella sua voce, icastica assai, intitolata “Petonciani”, il Pellegrino Artusi, nella sua opera “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (edito nel 1891, ristampa Giunti, 1991, p. 275, ricetta n° 399) scrive che “Il petonciano o melanzana è un ortaggio da non disprezzarsi per la ragione che non è né ventoso (sic), né indigesto. Si presta molto bene ai contorni ed anche mangiato solo, come piatto d’erbaggi, è tutt’altro che sgradevole, specialmente in quei paesi dove il suo gusto amarognolo non riesce troppo sensibile. Sono da preferirsi i petonciani piccoli e di mezzana grandezza, nel timore che i grossi non siano amari per troppa maturazione”. E poi prosegue: “Petonciani e finocchi, quarant’anni or sono, si vedevano appena sul mercato di Firenze; vi erano tenuti a vile come cibo da ebrei…” (in altre edizioni vi è questa aggiunta: “i quali dimostrerebbero in questo, come in altre cose di maggior rilievo, che hanno sempre avuto buon naso più de’ cristiani”).
L’Artusi dovette pagarsi la prima stampa di tasca propria; nulla di male: ciò è accaduto anche a Pablo Neruda e ad Alberto Moravia. Nei tre casi, questo esborso ha portato fortuna, sia al poeta cileno, al romanziere italiano che al gastronomo buongustaio di Forlimpopoli. In seguito, sarà Bemporad di Firenze a stamparlo e l’autore, nella prefazione, si produrrà in un ringraziamento.
A noi colpisce (non potrebbe essere altrimenti) che: a) la “mela insana” sia un cibo ebraico, portato dalla Spagna dove era stato diffuso dagli arabi (il hummus può anche essere fatto con le melanzane), b) che, in quanto tale, sia stato considerato “vile”.
Questo è il passato. Ripescando nell’Ottocento, quando nacque la fama dell’Artusi gastronomo (non fece soltanto quello), troviamo un ponte ideale con l’attualità, dove i maître à penser sono sostituiti dai cuochi (chef?) nella misura in cui lo stomaco prende il posto del cervello, messo a riposo per via sia degli scarsi frutti che ormai produce che della scarsa fortuna della letteratura. Tant’è che all’oculatezza negli acquisti di libri fa riscontro il grande esborso nei ristoranti.
Per fortuna, alcuni cuochi ormai non si limitano a segnare con la loro traiettoria il passaggio da cervello a stomaco, ma provano, lodevolmente, a produrre idee coi succhi gastrici, e ne abbiamo in questi giorni la felice riprova. Anche qui, come nell’Artusi, sono citati gli ebrei, ma in modo leggermente diverso. Anche gli esiti appaiono irriducibili a quelli del gastronomo di Forlimpopoli, e mai come in questi tempi l’albero della conoscenza degrada al medievale “malum” e sposa la “mela insana”. Dal ghetto, purtroppo, non si esce mai del tutto; ne riparleremo.