Nello sgradevole mutamento del clima antropologico in cui, giorno dopo giorno, identità negative si vanno consolidando intorno all’”altro” da odiare e da considerare quindi responsabile delle proprie vere o presunte disgrazie, il riaffacciarsi dell’odio antisemita – oggi alla ribalta anche in Italia con la proliferazione di scritte sui muri, sulle porte di casa e sui selciati – non poteva ovviamente mancare. Opera di esaltati che si compiacciono di profanare la memoria degli orrori passati e di offendere insieme agli ebrei tutti i valori positivi della nostra civiltà. Gesti per ora anonimi e furtivi che qualificano da sé la viltà di chi li commette, atti che non possono più essere considerati come semplici campanelli d’allarme. E certo neanche aiuta classificarli come semplici “episodi di emulazione”, nel comprensibile desiderio di ridimensionarne la portata.
Possiamo ancora dire di non essere di fronte al punto di non ritorno oltre il quale c’è solo l’irreparabile. Ma è altrettanto vero che nel contesto attuale queste ripugnanti bravate suonano molto più sinistre di quanto potessero apparire pochi anni o decenni fa: fasce sempre più ampie della popolazione italiana ed europea (per limitarci alla realtà in cui concretamente viviamo) tendono a sposare semplicistiche teorie dell’odio come reazione al senso di impotenza indotto dai complessi e angosciosi problemi del presente. E’ lo stesso l’humus velenoso attraverso il quale si è tentato di ricostruire la genesi delle spaventose tragedie del Novecento. Molte teste pensanti invitano a non gridare “al lupo” e in un certo senso hanno ragione, perché è necessario mantenere la calma ed evitare travisamenti interpretativi che con una retorica inadeguata possono rivelarsi controproducenti. La lucidità è un obbligo, ma la promessa del peggio è già tra noi.
Se così è, siamo però di fronte a un altro punto di non ritorno: quello della resistenza civile all’imbarbarimento delle coscienze. Non bastano l’indignazione generica e la solidarietà di circostanza a coloro che di volta in volta vengono colpiti: oggi tutti sono chiamati a reagire in modo attivo, e per primi devono farlo coloro che costruiscono ponti all’odio per acquistare consenso. C’è il dovere di un più impegnativo lavoro di trasmissione di valori – fatto di aiuto e di ascolto vero – alle nuove generazioni cui tocca l’onere del futuro e che si sentono non a torto abbandonate a se stesse. Ma è soprattutto indispensabile una ferma stigmatizzazione sociale di qualsivoglia forma di cedimento alla barbarie. Colpiscono le parole del deputato Pd Emanuele Fiano: “Alla fine noi ebrei siamo soli”. No, non dobbiamo sentirci soli e non dobbiamo far sentire soli altri che rischiamo di esserlo. Tornano alla mente le parole di Hanna Arendt in merito al comportamento del popolo e del governo danese che in piena seconda guerra mondiale riuscirono a salvare dalla deportazione la gran parte degli ebrei che si trovavano in Danimarca. “Su questa storia”, scrive Arendt in “La banalità del male”, “si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie (…) per dare un’idea della potenza enorme della non violenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”. Fortunatamente il livello del pericolo che corriamo oggi non raggiunge quelle drammatiche proporzioni, ma a maggior ragione sarebbe indegno non darsi da fare per evitare che accada ancora.