Con qualche mese di anticipo ad aprile in Israele si terranno le elezioni politiche. Se si trattasse di decidere la linea politica del governo, il risultato sarebbe chiarissimo. Tutti i sondaggi dicono che una consistente maggioranza degli israeliani intende proseguire l’orientamento politico attuale e farlo condurre ancora da Netanyahu, per la competenza e i successi ottenuti. Ma dove le opposizioni non hanno chances di vincere, si sono inseriti gli apparati giuridico-burocratici dello stato, che hanno preso di mira Netanyahu con ostinazione degna di miglior causa cercando di qualificare come improprie o addirittura corrotte le sue scelte politiche in fatto di comunicazione. Quanto queste accuse abbiano fondamento fattuale si vedrà al processo, se mai ci sarà, ma per ora sembra che ci sia l’intenzione di annunciare l’incriminazione del primo ministro alla vigilia delle elezioni – il che è evidentemente un fallo a gamba tesa dell’accusa (non della giustizia) sulla politica. Nel frattempo i maggiori concorrenti elettorali di Bibi litigano al loro interno. Il partito laburista ha scaricato Tzipi Livni e sciolto l’Unione Sionista. Bennet e la popolare ministra della giustizia Shaked sono usciti dal partito nazionalista religioso per fondare una “nuova destra”; il partito Kulanu di Moshe Kahlon ha subito un’emorragia di deputati, gli arabi della lista unita hanno perso Zahalka, presidente di Balad, il partito più grosso che ne fa parte. Anche i partiti religiosi stanno fronteggiando scissioni elettorali. In parte si tratta del frutto avvelenato dell’esasperato individualismo della politica di un piccolo stato come Israele, in parte di posizionamenti in vista di un futuro governo dopo la prevista vittoria del Likud, praticamente l’unico partito a non rischiare scissioni, dopo che Netanyahu ha rimesso nei ranghi anche Gideon Sa’ar. Il problema è che questi movimenti indicano anche in Israele una complessiva debolezza della politica di fronte all’attacco di burocrazia e magistratura. Se non ci fosse Netanyahu, la politica e cioè la volontà popolare rischierebbe di essere sopraffatta dal “politicamente corretto” dello stato profondo.