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    IDEE - PENSIERO EBRAICO

    Il pacifismo da Ariston – Sanremo 2024, tra paillettes, qualunquismo e appelli dei “quaquaraquà”

    Cosa succede quando sul palco del festival della canzone italiana si mischiano fiori, paillettes, leggerezza artistica e qualunquismo pacifista? Il risultato è la noia. Ma non quella bella canzone sanremese che ha vinto, bensì la noia intellettuale di un palco senza fiori usato come palcoscenico di faziosità ideologica, superficialità ed un pizzico di pregiudizio da salotto piccolo borghese. Se Sanremo è però uno degli specchi più brutalmente sinceri della cultura nazional popolare italiana, alla quale da sempre va il mio rispetto, dobbiamo però ammettere che la società italiana che ha applaudito alla frasi quali: ” Stop al genocidio” (di quale genocidio si tratti non è dato saperlo) o “Ci sono bimbi che non vedranno mai una terra promessa…” (ed altri che non vedranno mai più i loro genitori rapiti ed uccisi da Hamas) non è una società nazional popolare, bensì populista.

    Populista e noiosamente ovvia. Ovvia come tutti i figli delle periferie che hanno avuto la fortuna di imbroccare la strada giusta e si sentono, dopo quaranta anni, legittimati ad essere i difensori dei diritti degli ultimi. Ma non è sempre così. I bordi di periferia, dove i tram non vanno avanti, non sono luoghi che garantiscono l’obiettività dei nostri giudizi e prima di parlare, dai bordi di periferia in cerca di una terra promessa, dovremmo cercare ed ancora cercare il cammino della realtà dei fatti, prima di gridarli tra una giacca che sbrilluccica e l’applauso delle masse.

    Ora che il sipario è calato, che gli amici se ne vanno, che le polemiche si spengono ed abbiamo pianto al ricordo dei padri morti e delle figlie vincenti, dovremmo chiedere a chi ha organizzato quel palco e quello spettacolo dove fosse la giustizia ed il richiamo alla dignità ed alla difesa dei bambini che ancora sono rinchiusi, se ancora sono vivi, nei tunnel di Hamas con l’appoggio e la connivenza della popolazione palestinese? Dove erano gli appelli per le donne nelle mani violente dei terroristi islamici con le bende verdi sulle teste? Dove erano le lacrime per le famiglie distrutte, le case bruciate, le vite falciate al di là della striscia di Gaza, in questa terra promessa che è costata sudore, fatica e sangue per ogni pianta, ogni albero, ogni vita piantata con speranza ed amore? Ma questo pensiero, oltre ad essere complicato per le note stonate di un ragazzo che si definisce “italiano vero” e che dovrebbe dunque tenere a mente tra i suoi valori la cultura democratica della bella Italia, è anche un pensiero che al televoto non fa alzare gli indici di ascolto perché obbligherebbe il pubblico a pensare ai diritti degli ultimi impopolari che sono i bambini di Israele e questo è inconciliabile con le leggi dello spettacolo.

    Perché di questo si tratta: esistono cause che hanno guadagnato lo spettacolo, le luci della ribalta, i palcoscenici e fanno alzare gli ascolti. Sono giuste queste cause? Quasi mai, ma non importa. Funzionano. Chiamano applausi. Chiamano popolo. Chiamano plebe. Ed allora usiamole. Come usiamo il ballo del qua qua con una icona del cinema mondiale. Il ballo del qua qua con chi ha rivoluzionato la storia del ballo e del cinema degli ultimi 40 anni, da Grease a Pulp Fiction. Ma il ballo del qua qua funziona. La plebe lo ama. Ed allora va bene. Peccato che ballando il ballo del qua qua ed applaudendo la causa nazi islamica di Hamas siamo passati alle parole dei quaquaraquà, come insegnava Leonardo Sciascia, le parole dei “ragazzi di oggi” che non guardano più lontano del qualunquismo della propaganda terzomondista palestinese. Propaganda sì, ma che televisivamente funziona. La musica è finita, gli amici se ne vanno e resta il sapore degli appelli di una giustizia sommaria e immorale, da un palco che dovrebbe fare spettacolo e non dare spettacolo di ovvietà da quattro amici al bar.

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